sabato 27 febbraio 2016

Spese condominiali: subito il decreto ingiuntivo ai morosi.

 

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Con la legge di riforma 220/2012, che ha attribuito più poteri e responsabilità all’amministratore e  come disposto dall’articolo 1129 del Codice civile, «salvo che sia stato espressamente dispensato dall’assemblea, è tenuto ad agire per la riscossione forzosa delle somme dovute dagli obbligati entro sei mesi dell’esercizio nel quale il credito esigibile è compreso»

Così, nel caso in cui un condomino non paghi le spese comuni – e tra queste rientra anche la quota per il riscaldamento centralizzato – l’amministratore è obbligato ad agire giudizialmente contro il moroso. Dapprima (ma è facoltativo) inviando al diretto interessato una lettera di sollecito; quindi, senza che sia necessaria l’autorizzazione dell’assemblea, ottenendo un decreto ingiuntivo immediatamente esecutivo. Sarà poi il giudice, sulla base del rendiconto e del riparto delle spese prodotti dall’amministratore, a obbligare il moroso a saldare i suoi debiti, pena il pignoramento dei beni.

Canoni locazione non riscossi: cosa deve fare il proprietario

Canoni locazione

Se i canoni di locazione rappresentano a determinate condizioni, un onere detraibile per l’inquilino, per il locatore sono invece un reddito tassabile ai fini dell’IRPEF, l’Imposta sul reddito delle persone fisiche. Tuttavia, complice la crisi economica, può accadere che un inquilino non riesca a pagare il canone di locazione pattuito nel contratto e sia moroso.
In tal caso come deve comportarsi il locatore? Sarà comunque soggetto a tassazione? Come può evitarla? Cosa deve fare?

Canoni locazione: come vengono tassati per il locatore

Quando il proprietario di un immobile decide di concederlo in locazione ad uso abitativo,  il canone che percepisce costituisce reddito soggetto a tassazione.
Il locatore, tuttavia, può scegliere di non far cumulare il canone annuo agli altri suoi redditi (sul cui totale andrà calcolata l’IRPEF), optando per il regime fiscale della cedolare secca, ossia un regime facoltativo consistente nell’applicare al canone annuo di locazione un’imposta fissa, in sostituzione dell’IRPEF e delle relative addizionali, dell’imposta di registro e dell’imposta di bollo.
Tale regime facoltativo, tuttavia, è bene sottolineare che scegliendolo il proprietario  rinuncia all’aggiornamento del canone di locazione in base alla variazione ISTAT.
Se il locatore non sceglie di optare per il regime della cedolare secca sugli affitti, il reddito che deriva dalla locazione,  soggetto a tassazione, è costituito dal maggiore fra i due seguenti importi:
- rendita catastale rivalutata del 5% (per gli immobili riconosciuti di interesse storico o artistico va considerato il 50% della rendita catastale rivalutata)
- canone annuo, ridotto del 5% (25%, per i fabbricati situati nella città di Venezia centro e nelle isole della Giudecca, Murano e Burano; 35%, se l’immobile è riconosciuto di interesse storico o artistico).
Se il fabbricato si trova in un Comune ad alta densità abitativa, ed è locato a canone concordato, in base agli accordi territoriali definiti tra le organizzazioni dei proprietari e degli inquilini più rappresentative a livello nazionale, è prevista un’ulteriore riduzione del 30% del canone.
Questo ovviamente se il locatore percepisce dal conduttore il canone pattuito nel contratto.
Se invece accadesse il contrario e quindi l’inquilino sia moroso, cosa succede? Il locatore deve comunque pagare le tasse?

Tassazione canone locazioni: il reddito fondiario

Per rispondere a questa domanda ci viene in aiuto il TUIR (Testo Unico delle Imposte sui Redditi) il quale prevede che l’attività di locazione di un immobile, in caso di soggetto privato, produce il cosiddetto reddito fondiario che concorre alla formazione del reddito del proprietario dell’immobile.
Ai sensi dell’articolo 26, comma 1 del TUIR i redditi fondiari sono quelli prodotti da terreni e fabbricati siti nel territorio dello Stato che devono essere inscritti, con attribuzione di rendita, nel catasto dei terreni o in quello edilizio urbano.
La legge prevede che anche nel caso di canone di locazione non percepito, il proprietario di casa deve sempre pagare le tasse, quindi deve riportare nella dichiarazione dei redditi, il reddito fondiario e  su di esso pagare le tasse Fisco. Per evitare questa situazione sfavorevole per i proprietari di casa, l’Agenzia delle entrate ha fornito delle nuove precisazione.
In particolare è la circolare n. 11/E del 21 maggio 2014, intitolata Questioni interpretative in materia di IRPEF prospettate dal Coordinamento Nazionale dei Centri di Assistenza Fiscale e da altri soggetti a ricordare che in base alla regola generale di cui all’art. 26 del TUIR, i redditi fondiari sono imputati al possessore (quindi il proprietario dell’immobile concesso in locazione) indipendentemente dalla loro percezione, quindi indipendentemente dalla percezione del canone. Tuttavia l’Agenzia delle entrate ricorda che c’è un’eccezione e riguarda proprio le locazioni di immobili ad uso abitativo.

Canoni locazione non riscossi: cosa può fare il locatore?

Affitti non pagatiL’articolo 8, comma 5, della legge n. 431 del 1998 ha introdotto infatti due nuovi periodi all’attuale art. 26 del TUIR, stabilendo che i relativi canoni di locazione, se non percepiti, non concorrono alla formazione del reddito complessivo del locatore dal momento della conclusione del procedimento giurisdizionale di convalida di sfratto per morosità del conduttore.
Cosa significa? In sostanza che i redditi degli immobili concessi in locazione esclusivamente ad uso abitativo, qualora non sia percepito il canone, sono comunque tassati fino al momento della conclusione del procedimento giurisdizionale di convalida di sfratto per morosità del conduttore.
Per evitare quindi la tassazione nel caso in cui l’inquilino non paghi il canone pattuito, è necessario che lo stesso conduttore sia dichiarato moroso grazie ad una accertamento del giudice a seguito del procedimento di convalida di sfratto.
Nei fatti, per definire il procedimento occorre che:
- l’intimato non compaia
- l’intimato compaia ma non si oppone
- l’intimato compaia si oppone ma il giudice pronuncia  l’ordinanza non impugnbaile di rilascio dell’immobile.
Di conseguenza, il locatore non deve riportare i canoni di locazione nella relativa dichiarazione dei redditi se, entro il termine di presentazione della stessa, si è concluso il procedimento di convalida di sfratto per morosità.

Credito di imposta per canoni non riscossi

Canoni affitto non riscossi

Può anche verificarsi la situazione in cui il giudice conferma la morosità del locatario anche per i periodi precedenti il provvedimento giurisdizionale, ossia per i periodi in cui il locatore abbia pagato le tasse anche se non ha percepito il canone pattuito.
In tal caso gli viene riconosciuto un credito d’imposta di ammontare pari alle imposte versate sui canoni venuti a scadenza e non percepiti.
Il credito d’imposta può essere utilizzato in compensazione con altre imposte a debito oppure chiesto a rimborso. Il credito di imposta deve essere calcolato rideterminando le imposte che risultano da ogni dichiarazione dei redditi presentata nelle annualità precedenti al provvedimento di convalida di sfratto pronunciato dal giudice.
Per determinare la misura del credito in questione, è necessario calcolare le imposte pagate in più, relativamente ai canoni non percepiti, riliquidando la dichiarazione dei redditi di ciascuno degli anni per i quali, in base all’accertamento avvenuto nell’ambito del procedimento giurisdizionale di convalida di sfratto per morosità del conduttore, sono state pagate maggiori imposte per effetto di tali canoni di locazione non riscossi.
Ulteriore condizione per fruire del credito d’imposta è verificare che alla determinazione del reddito complessivo abbia concorso il canone d’affitto e non la rendita catastale visto che  in queste circostanze il non aver percepito il canone di locazione non determina il diritto a fruire del credito d’imposta. Il credito d’imposta in questione può essere indicato nella prima dichiarazione dei redditi utile successiva alla conclusione del procedimento giurisdizionale di convalida dello sfratto, e comunque non oltre il termine ordinario di prescrizione decennale.
Si precisa infine che nel caso in cui il proprietario dell’immobile abbia fruito del credito d’imposta per canoni non riscossi, e successivamente i canoni vangano effettivamente percepiti (anche parzialmente), il locatore è tenuto a dichiarare i canoni di locazione riscossi nel quadro RM del Modello Unico.

Mutuo, conto corrente e rinegoziazione

 

Pignoramento conto corrente e carta di credito come evitarlo

Estinzione del conto di appoggio del mutuo; rinegoziazione e surroga del mutuo: caratteristiche e convenienza.

Il mutuo è spesso fondamentale quanto necessario per l’acquisto della casa. Si tratta di un contratto, comunque, complesso, con molteplici obblighi a carico del mutuatario ed altrettante vicende che lo possono caratterizzare.

Questo articolo si propone di rispondere ad alcune delle varie domande cui molti si pongono in materia

Vorrei chiudere il conto corrente su cui si addebitano le rate del mutuo: posso farlo?

Incominciamo col dire che in base alla legge [1] il contratto di conto corrente può essere oggetto di recesso in qualsiasi momento. In altri termini, se il cliente manifesta questa volontà, la banca non può che prenderne atto ed il conto si estingue.

Tuttavia la regola poc’anzi descritta può essere derogata dalle parti interessate. Infatti, spesso e volentieri, nella stipula di un mutuo è previsto, a carico del debitore/mutuatario, l’obbligo di apertura di un conto corrente di “appoggio“, dove cioè devono essere addebitate le rate del prestito. Ma non solo.

Può essere, altresì, imposto che tale conto debba restare obbligatoriamente aperto sino alla completa estinzione del mutuo.

Ebbene in tal caso, la risposta alla domanda posta, non può che essere negativa.

In conclusione, leggete il contratto di mutuo in vostro possesso per poter stabilire se avete o meno facoltà di chiusura del conto corrente in questione.

Il mio mutuo è stato cartolarizzato: posso estinguere il conto corrente di appoggio?

Con la cartolarizzazione del mutuo, la banca erogatrice cede il proprio credito ad un altro soggetto. Quest’ultimo, che in genere è una società, nella maggior parte dei casi, lascia che la banca originaria provveda ad incassare le rate previste, per poi girarle al nuovo creditore.

Per il cliente/debitore non cambia assolutamente nulla: le condizioni del mutuo saranno sempre le stesse.

Per quanto riguarda, invece, il cosiddetto conto di “appoggio”, la situazione è identica a quella descritta nel quesito precedente. Tale conto corrente potrà essere estinto, solo se non è previsto l’obbligo di mantenimento dello stesso, nel contratto di mutuo.

In questo caso, però, il correntista, interessato ad estinguere la precedente posizione contrattuale per aprirne un’altra, magari, più vantaggiosa (ad esempio un conto corrente a condizioni più favorevoli con un’altra banca), potrà accordarsi in tal senso con la società che ha acquistato il mutuo.

Rivolgete, pertanto, la vostra richiesta al nuovo creditore.

Posso rinegoziare il mio mutuo?

Il contraente di un mutuo ha la possibilità di chiedere alla banca erogatrice una rinegoziazione del prestito ottenuto. Ovviamente la banca non è obbligata ad accogliere la richiesta del debitore, ma la convenienza dell’istituto in questione sta nell’evitare che il cittadino si rivolga altrove, perdendo, pertanto il cliente e i benefici economici che ne conseguono.

Il privato, ad esempio, può decidere di rinegoziare il mutuo, poiché sono mutate le condizioni di mercato (ad esempio, si è abbassato il costo del denaro).

Attenzione, però. La banca non è obbligata ad accettare la proposta del debitore, ma potrebbe venire incontro all’esigenze di quest’ultimo, per non perdere il cliente ed i vantaggi che ne conseguono : il contraente, infatti, potrebbe trovare più conveniente surrogare il mutuo, rivolgendosi ad un altro istituto di credito.

Che cos’è la surroga del mutuo?

La facoltà di surrogare il mutuo consiste nella possibilità di rivolgersi ad un’altra banca, affinché quest’ultima si sostituisca all’originario mutuante.

In questo caso, come nella rinegoziazione, il debitore avrà la facoltà di concordare condizioni diverse e più favorevoli rispetto al mutuo originariamente stipulato. L’unica differenza pratica con la precedente ipotesi sarà il cambio del soggetto creditore.

Attenzione : per il debitore, la surroga del mutuo è un’operazione gratuita, ma non per questo essa non ha alcun costo per il nuovo creditore a cui ci si rivolge. Per questa ragione, le banche non guardano di buon occhio coloro che già l’hanno eseguita. Essi sono valutati come inaffidabili e, pertanto, chi ha già ottenuto una surrogazione difficilmente troverà un altro istituto disponibile a concederla.

Quando conviene rinegoziare o surrogare il mutuo?

Tanto la rinegoziazione quanto la surrogazione sono ovviamente maggiormente convenienti nella fase iniziale del mutuo (cioè nei primi anni del piano di ammortamento) e non quando il medesimo è stato quasi totalmente restituito : di norma, infatti, nel primo periodo, il debitore restituisce sostanzialmente gli interessi previsti e pattuiti. Rinegoziare il mutuo, al termine del medesimo, non è quindi conveniente, poiché, ormai, resta da erogare la sorta capitale (cioè l’importo del prestito).

Raccogliete, pertanto, con pazienza i preventivi che vi propongono, tra cui quello della vostra banca se disponibile, valutate con attenzione tutte le spese previste e non solo gli interessi proposti, quindi scegliete la soluzione migliore per voi. Ricordatevi, inoltre, che dopo la prima surroga, difficilmente ne otterrete un’altra.

Mutuo, la banca prima finanzia l’acquisto dell’immobile, poi lo vende

 

La banca prima finanzia acquisto dell’immobile poi lo vende

Immobili con l’ipoteca, prima dati in garanzia, poi venduti dalla banca senza pagamento dell’imposta di registro; le aste immobiliari saranno un lontano ricordo.

Contrarre un mutuo e concedere alla banca l’ipoteca sulla casa potrebbe divenire, a breve, un rischio superiore a quello cui, tradizionalmente, sono stati abituati gli italiani: in ballo c’è sempre la possibilità perdere l’immobile in caso di morosità, ma, a differenza del passato, questo passaggio potrebbe avvenire anche senza pignoramento ed espropriazione forzata. Senza contare che la stessa vendita all’asta, qualora disposta dall’istituto di credito, potrebbe avere tempi celerissimi, se non addirittura inesistenti. Sono tre, infatti, le novità legislative che innovano fortemente la materia dei finanziamenti e delle esecuzioni immobiliari, tutte rivolte ad agevolare i creditori e ad accelerare i procedimenti di rivendita. In un momento, poi, come quello presente, dove le sofferenze bancarie sono considerate una delle principali cause della crisi, il sostegno dei governi nazionali e comunitari ai gruppi creditizi non è neanche più di tanto celato.

Vediamo, dunque, quali sono le norme che stanno per modificare la scena dei mutui ipotecari.

Il pignoramento è immediato

Partiamo dal meccanismo tradizionale: morosità perdurante del cliente finanziato, avvio della pratica al contenzioso legale, diffida della banca, atto di precetto e successivo pignoramento. Nei confronti di chi non paga le rate del mutuo l’istituto di credito non deve ricorrere necessariamente a una causa o al decreto ingiuntivo: il contratto di mutuo, infatti, stipulato alla presenza del notaio, è già titolo esecutivo e consente di passare direttamente allo step del pignoramento, previa notifica di un atto di precetto (l’invito, cioè, a pagare entro 10 giorni).

Vendita immediata alla quarta asta

A questo punto, però, interviene la prima rivoluzione. La legge di riforma delle esecuzioni forzate, in via di approvazione entro l’estate, prevede un numero massimo di tentativi di vendita all’asta: tre in tutto, al termine dei quali, se non si presentano offerenti, si passa a un quarto “a offerta libera”. Grazie a questo meccanismo, la vendita dell’immobile è sicuramente più probabile rispetto al passato, caratterizzato invece dalle consuete strategie rivolte ad ottenere il massimo “ribasso” della base d’asta. Una situazione che favorirà, peraltro, la cessione del bene a prezzi irrisori, lasciando sostanzialmente insoddisfatto tanto il creditore quanto il debitore.

L’abolizione dell’imposta di registro

A favorire, però, la possibilità che l’immobile venga acquistato dalla stessa banca è una norma, approvata un paio di settimane fa dal Governo [1], che garantisce un abbattimento totale dell’imposta di registro (attualmente al 9%, sostituita invece con un importo flat di 200 euro) a tutti coloro che si aggiudicheranno il bene all’asta giudiziaria, a condizione che lo stesso venga rivenduto entro due anni. Questo significa, verosimilmente, che la banca che vorrà prendersi la casa lo potrà fare ottenendo un grosso sconto fiscale (leggi: “Imposta di registro ridotta per gli acquisti all’asta”): l’unico impegno sarà quello di ricollocarlo sul mercato in un breve lasso di tempo.

La misura è prevista, in via transitoria, fino al 31 dicembre 2016, salvo rinnovo.

Stante l’obbligo della successiva rivendita entro 24 mesi dell’immobile acquistato all’asta giudiziaria, l’agevolazione, pur indirizzata a chiunque (anche a persone fisiche che vogliano speculare), non è sicuramente destinata a chi intenda acquistare la propria casa di abitazione all’asta, ma a investitori nonché, in misura principale, alle stesse banche creditrici e alle società finanziarie specializzate nell’acquisto dei distressed asset (ovvero i crediti incagliati garantiti da immobili), le quali, in sede di escussione delle garanzie ipotecarie, potranno autoassegnarsi il bene all’asta in compensazione con il proprio credito e rivenderlo, quale proprietarie e con l’utilizzo dei tradizionali canali della vendita a trattativa privata o anche in blocco, nei due anni successivi.

In tale ipotesi, peraltro, nessun limite sarà posto al ricavo ottenuto, potendosi anche lucrare una eventuale differenza tra il credito e il prezzo di vendita.

La banca rivende il bene senza pignoramento

Ma non sono queste le sole novità nel settore: ce n’è una potenzialmente più dirompente. La direttiva Comunitaria sui mutui ipotecari [2] consente la possibilità che un contratto di mutuo contenga la clausola con cui si legittima la banca, in caso di morosità del cliente, a prendersi la casa ipotecata e a rivenderla, senza dover prima procedere al pignoramento ed esecuzione forzata. Tale previsione non sarà considerata una clausola abusiva. In buona sostanza, si verifica una sorta di cessione del bene finanziato al creditore che provvede, attraverso i propri canali, a venderlo per poi soddisfarsi sul ricavato. La procedura, dunque, promette tempi ancora più brevi della “nuova” vendita all’asta. Di tanto avevamo parlato nell’articolo: “Mutui: la clausola che dà alla banca il diritto di prendere la casa”.

In pratica, la direttiva UE prevede che “gli Stati membri non impediscono alle parti di un contratto di credito di convenire espressamente che la restituzione o il trasferimento della garanzia reale o dei proventi della vendita della garanzia reale è sufficiente a rimborsare il credito”. L’Italia dovrà attuare tale normativa entro il 21 marzo 2016 stabilendo modalità e limiti con cui le banche potranno inserire, nel contratto di mutuo di immobili residenziali, un mandato a vendere o comunque un potere diretto di autotutela nella soddisfazione del credito inadempiuto. Saranno quindi del tutto legittimi i meccanismi in base ai quali il creditore vende l’immobile ricevuto in garanzia, in caso di inadempimento, previa stima di un terzo per la determinazione minima del prezzo e versamento. All’esito della vendita, al debitore verrà versata la differenza tra l’ammontare del credito e il ricavato dalla vendita del bene.

Note

[1] Art. 16 del dl n. 18/2016.

[2] Art. 28, paragrafo 4, della direttiva 2004/17/Ce.

venerdì 26 febbraio 2016

Sondaggio Bankitalia: crescono le compravendite, stabili i prezzi, ma per gli acquirenti sono ancora troppo alti

Sondaggio Bankitalia: crescono le compravendite, stabili i prezzi, ma per gli acquirenti sono ancora troppo alti
Nel quarto trimestre del 2015 prosegue il lento miglioramento del mercato immobiliare, con compravendite in aumento e valori stabili o in leggera diminuzione. A dirlo è il consueto sondaggio congiunturale di Bankitalia sul mercato delle abitazioni, che segnala come il divario tra prezzi offerti e domandati sia ancora la principale causa di cessazione degli incarichi a vendere.

Prezzi delle case e compravendite

Nell'ultima parte dell'anno, è diminuita la percentuale di operatori che segnalano una flessione dei prezzi di vendita, divenuta minoritaria per la prima volta dalla primavera del 2011 (46,4% rispetto al 67,6% della rivelazione di un anno fa), a fronte di una prevalenza dei giudizi di stabilità (52,3% del totale da 31,6%).
Per quanto riguarda le compravendite, è salita la quota di agenti che hanno venduto almeno un’abitazione (77,8%) dal 71,6 dell’indagine precedente. Nel trimestre di riferimento gli operatori hanno intermediato in prevalenza immobili di metratura fino a 140 mq, abitabili o parzialmente da ristrutturare, con classe energetica bassa.

Prezzi delle case ancora troppo alti

Il divario tra prezzi offerti e prezzi domandati è ancora la principale causa di cessazione degli incarichi: mentre la quota di coloro che segnalano proposte di acquisto a prezzi ritenuti troppo bassi per il venditore è rimasta sostanzialmente stabile (al 59,8 per cento), l’incidenza degli agenti che riporta la percezione da parte degli acquirenti di prezzi di acquisto eccessivamente elevati è salita al 61,1 per cento (dal 58,6 della precedente indagine).

La quota di agenzie che riconduce la decadenza dell’incarico alle difficoltà degli acquirenti di reperire un mutuo è rimasta pressoché invariata (al 28,4 per cento; 35,7 un anno prima).

Prospettive del mercato

Le aspettative degli agenti immobiliari sulle tendenze a breve termine del proprio mercato di riferimento si ravvisano più favorevoli: il saldo fra attese di miglioramento e di peggioramento nel trimestre in corso è salito a 15,9 punti percentuali (da 7,4 della precedente rilevazione), con una tendenza comune a tutte le principali aree geografiche.
Per quanto riguarda il mercato nazionale, per a prima volta dal terzo trimestre del 2010 il saldo relativo alle attese circa l’evoluzione del mercato immobiliare nazionale è risultato significativamente positivo (8,1 punti percentuali contro valori sostanzialmente nulli nella precedente indagine. In un orizzonte di medio termine (due anni) si rafforza l’ottimismo degli operatori: la quota delle attese di miglioramento è aumentata al 55,9 per cento (dal 53,1 in ottobre), a fronte di una diminuzione dei giudizi di stabilità e, in misura più apprezzabile, di quelli di peggioramento (al 10,5 dal 12,1 per cento).

Rendita catastale, come ridurla ai fini delle imposte


Ecco tutti in casi in cui è possibile ridurre la rendita catastale di un immobile, così da abbassare le imposte come TASI e IMU: casistica, requisiti e procedura.



Catasto
La rendita catastale è un parametro utilizzato in diversi algoritmi per il calcolo delle imposte sugli immobili (comprese TASI e IMU); per ridurne il valore, magari per renderlo più aderente a quelli che sono i prezzi del mercato immobiliare, esistono diverse strade.


Stato

Se l’immobile di cui si intende abbassare la rendita catastale è una unità molto vecchia, in stato di degrado o priva di servizi igienici, è possibile presentare agli enti preposti una denuncia di variazione di rendita, mediante un intermediario o un professionista come un tecnico specializzato, che comporterà anche l’esenzione dalle imposte sugli immobili.Nel caso in cui il fabbricato sia di vecchia costruzione e solamente in parte degradato, è possibile frazionarlo e distaccarlo in due porzioni logorate, classificate diversamente e in un’altra categoria, così da abbassare la rendita catastale complessiva.


Utilizzo

Spesso, ad avere una rendita catastale eccessivamente elevata sono anche le unità immobiliari una volta adibite a negozi, successivamente chiusi o adibiti a magazzini, depositi o laboratori. Anche in questi casi è possibile richiedere una variazione catastale ed una riduzione della classe di merito, che avrà come effetto anche una riduzione della rendita.


Errori di censimento

Alcuni immobili residenziali hanno invece una rendita catastale troppo alta per errori di censimento: in questi casi è necessario presentare una specifica istanza di rettifica, che viene definita in autotutela, portandola all’ufficio provinciale dell’agenzia del Territorio appartenente alla propria zona residenziale o alla proprio territorio regionale. Una volta corretto l’errore, la rendita catastale risulterà ridotta.

Benefici prima casa: in presenza di usufruttuario e nudo proprietario chi deve prendere la residenza?

Benefici prima casa: in presenza di usufruttuario e nudo proprietario chi deve prendere la residenza?

Benefici prima casa: in presenza di usufruttuario e nudo proprietario chi deve prendere la residenza?

Si torna a parlare delle agevolazioni per l’acquisto della prima casa e lo si fa prendendo spunto da un chiarimento offerto all’Associazione dei geometri fiscalisti (Agefis).
Il quesito posto è il seguente: “Viene acquistato un appartamento non di lusso con i benefici prima casa con madre usufruttuaria e figlio nudo proprietario. Entrambi sono in possesso dei requisiti soggettivi richiesti per il riconoscimento del regime agevolativo. Quale dei due è tenuto a prendere la residenza entro 18 mesi?”. Vediamo cosa è stato risposto.

Le condizioni per fruire delle agevolazioni di acquisto della prima casa

Ai fini della possibilità di fruire delle agevolazioni di acquisto della prima casa devono ricorrere, in sintesi, le seguenti condizioni:
- che l’immobile sia ubicato nel Comune in cui l’acquirente ha o stabilisca entro diciotto mesi dall’acquisto la propria residenza o, se diverso, in quello in cui lo stesso svolge la propria attività;
- che nell’atto di acquisto l’acquirente dichiari di non essere titolare esclusivo o in comunione col coniuge di altra casa di abitazione nel territorio del Comune in cui è situato l’immobile da acquistare;
- che nell’atto di acquisto l’acquirente dichiari di non essere titolare, neppure per quote, su tutto il territorio nazionale, di altra casa di abitazione acquistata con i benefici in oggetto.

Residenza anagrafica richiesta da entrambi i titolari della proprietà

Non è invece richiesta l’utilizzazione diretta dell’appartamento, ma solo la residenza nel territorio del Comune nel quale si trova l’immobile. Per non perdere le agevolazioni la residenza anagrafica nel Comune in cui è ubicato l’immobile in parola dovrà essere però richiesta da entrambi i titolari della proprietà, nudo proprietario e usufruttuaria, in quanto hanno usufruito entrambi del regime agevolativo.
La residenza nell’immobile è necessaria solo ai fini della detrazione dalle imposte sul reddito delle persone fisiche (Irpef) di una quota degli interessi versati dal contribuente all’Istituto di credito da cui è stato concesso l’eventuale mutuo per l’acquisto. Questa, però, può essere detratto solo dal nudo proprietario.

domenica 21 febbraio 2016

Mutuo: no decreto ingiuntivo o pignoramento se il contratto è abusivo

 

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Il giudice deve rilevare d’ufficio le clausole vessatorie ed è tenuto a bloccare l’esecuzione forzata e la vendita all’asta, in qualsiasi fase si trovi.

Per la seconda volta la Corte di Giustizia dell’Unione Europea si scaglia contro i contratti di mutuo bancario contenenti clausole capestro: con una sentenza di qualche giorno fa [1], i giudici di Lussemburgo hanno stabilito che l’eventuale presenza di clausole abusive inserite dalla banca nel contratto di finanziamento (cosiddette clausole vessatorie) deve essere rilevata dal giudice d’ufficio, quindi anche in mancanza di apposita richiesta della parte mutuataria.

Non solo: l’aspetto più interessante è che tale rilevazione può avvenire in qualsiasi fase del procedimento, dall’iniziale istanza di decreto ingiuntivo alla fase ultima, quella della vendita forzata con l’asta. In buona sostanza, sono contrarie al diritto dell’Unione Europea eventuali regole interne agli Stati che pongano una preclusione oltre la quale il consumatore non può più eccepire la nullità del contratto.

Come si diceva, non è la prima volta che la Corte di Giustizia afferma il principio secondo cui l’ipoteca e l’espropriazione forzata sull’immobile del debitore debba essere bloccata in presenza di clausole vessatorie (leggi “Mutui: la Corte di Giustizia vieta espropriazioni se ci sono clausole abusive”). Ed oggi, più che mai, la sentenza assume un significato ancora più pregnante posta l’imminente attuazione della direttiva MCD (Mortgage Credit Directive) [2] che accorda alle banche una serie di prerogative, non in ultimo quella di inserire nel contratto di mutuo una clausola che obblighi il cliente a restituire l’immobile finanziato, in caso di mancato pagamento delle rate, senza bisogno di una causa e del pignoramento (leggi: “Mutui: la clausola che dà alla banca il diritto di pretendere la casa”).

Ma procediamo con ordine.

Il nostro sistema processuale, così come quello di quasi tutti gli Stati europei, è caratterizzato da “preclusioni”: in buona sostanza, il codice di procedura fissa dei tempi limite oltre il quale determinate eccezioni possono essere sollevate. Se ciò non avviene, l’eventuale vizio si sana. Si pensi al caso della prescrizione. Se non è eccepita immediatamente dal convenuto, il giudice non può rilevarla autonomamente.

Ebbene, secondo la Corte di Giustizia queste regole non possono valere quando è in gioco l’interesse del consumatore nei rapporti con un soggetto tanto forte come la banca, soggetto che, come noto, impone i suoi contratti standard senza possibilità per il mutuatario di intervenire sul testo, modificandolo o personalizzandolo alle proprie esigenze. Sicché, posta questa ineluttabile scelta del “o così, o niente”, è necessario tutelare maggiormente il cittadino. Questo si riversa in due importanti conseguenze pratiche:

– all’atto della richiesta del decreto ingiuntivo, se di norma è sufficiente, per il creditore, la prova scritta del credito (che, per la banca, è data dal contratto di mutuo, dagli estratti conto o dal saldaconto), scaricando poi sul debitore, con l’eventuale opposizione, l’onere di sollevare eventuali contestazioni sulla validità del rapporto, la Corte di Giustizia dice che il giudice nazionale deve, già da questa fase, verificare se il contratto è in regola e non presenti clausole abusive e vessatorie (si pensi al caso di interessi anatocistici, interessi superiori a quanto disposto dalla legge, rinuncia a garanzie, ecc.). In pratica, il tribunale – per quanto la legge non lo dica espressamente – deve fare, già da questa fase e pur in assenza di una vera e propria causa (il decreto ingiuntivo è azionato solo dal creditore) un primo e generale vaglio sulla legittimità del contenuto del contratto;

– all’atto dell’esecuzione forzata, in sede cioè di pignoramento e vendita forzata, il giudice non può nascondersi dietro le regole della procedura che stabiliscano, eventualmente, la sua incompetenza a pronunciarsi su questioni relative al merito del credito: anche in questa fase processuale, infatti, il tribunale deve annullare il contratto, e quindi stoppare la vendita all’asta se riconosce che, nel merito, il contratto presenti clausole abusive e vessatorie. Tradotto in termini più semplici: non esiste un termine massimo per contestare la validità del finanziamento. Anche quando tutto sembra ormai perduto e si sta procedendo alla vendita coatta, il giudice deve poter verificare il contenuto dell’accordo e la presenza di eventuali clausole che violino i diritti dei consumatori.

Tutti, dunque, più tutelati contro i contratti capestro: se non sarà il giudice nazionale ad avere la forza e il coraggio di interrompere l’esecuzione forzata, sarà invece la Corte di Giustizia. Un’ultima spiaggia per gli indebitati che abbiano dovuto subire le imposizioni della banca.

Note

[1] C. Giust. UE sent. C-49/14 del 18/2/16.

[2] Direttiva UE n. 17/2014 detta Mortgage Credit Directive.

Come non pagare IMU e TASi sulla casa data in comodato ai figli

 

Esenzione Imu per le due abitazioni dei coniugi solo se in Comuni diversi

Comodato ai figli o ai genitori: la risoluzione del Ministero delle Finanze con tutti i chiarimenti.

Riduzione del 50% di Imu e Tasi per chi concede l’immobile in comodato a parenti in linea retta, ossia ai figli o ai genitori: lo scorso 18 febbraio 2016 il Dipartimento delle Finanze ha diffuso una Risoluzione [1] che chiarisce la portata del bonus fiscale in commento, inserito con la legge di Stabilità per il 2016 [2]. Analizziamo tutte le condizioni per usufruire dell’agevolazione in commento.

Lo sconto su Imu e Tasi

La legge consente al proprietario di casa di ottenere uno sconto significativo: viene abbattuta del 50% la base imponibile di Imu e Tasi a condizione che l’immobile sia concesso in comodato gratuito a un figlio o ai genitori.

Il comodatario non dovrà versare la TASI sull’immobile oggetto del comodato, mentre il comodante, verserà la TASI – una volta ridotta la base imponibile del 50% – nella percentuale stabilita dal Comune in relazione al 2015 (in assenza, applicherà la TASI nella misura pari al 90% dell’ammontare complessivo del tributo).

Il contratto di comodato

Il contratto di comodato va registrato, anche se stipulato verbalmente. Come noto, infatti, il comodato non deve essere necessariamente scritto, né tantomeno deve essere stipulato davanti a un notaio, ben potendo essere orale. In ogni caso, la scrittura privata è sempre preferibile, anche ai fini di indicare la durata massima del comodato.

La registrazione del contratto di comodato per il 2016 costerà al contribuente 216 euro (di cui 200 euro di imposta di registro e 16 euro di marca da bollo ogni quattro pagine di contratto).

La registra va richiesta entro 20 giorni dalla data del contratto.

Le condizioni per il comodante

Il comodante, oltre alla casa data in comodato, può essere titolare solo di un’altra abitazione, quella principale ove risiede. Il bonus quindi non opera se il comodante, oltre alla propria casa principale e a quella data in comodato, possiede una minima percentuale di un altro immobile.

È però escluso dal calcolo il possesso di un immobile rurale ad uso strumentale, sebbene abitativo: esso non confligge con il requisito del possesso di un solo immobile in Italia, dunque non è d’impedimento all’agevolazione.

Al comodatario, invece, non viene imposta tale condizione, per cui può essere titolare anche di più di un immobile.

Le condizioni del comodatario

Il comodatario deve essere parente in linea retta di primo grado: quindi deve trattarsi di uno o più figli o di uno o entrambi i genitori.

Le condizioni dell’immobile

Il comodato si deve riferire a un immobile situato nello stesso Comune ove si trova l’abitazione principale del comodante. Per cui, se il comodante ha l’immobile principale in un Comune e quello che intende dare in comodato in un secondo Comune, sebbene situato a pochissimi chilometri dal primo, il bonus non può essere richiesto.

In questo modo però vengono tagliati fuori dall’agevolazione tutti gli immobili comprati in un’altra città come, ad esempio, dove studia il figlio. I problemi si pongono poi in tutti quei piccoli comuni italiani tra loro limitrofi, dove è facile che il figlio abiti in un centro diverso da quello dei genitori anche se le due case sono a pochissimi chilometri l’una dall’altra.

In secondo luogo, l’immobile concesso in comodato non deve essere di lusso, ossia accatastato nelle categorie A/1, A/8 e A/9.

L’agevolazione spetterà anche alle pertinenze.

In pratica

Le condizioni per la riduzione:

– la registrazione del contratto;

– la residenza (nonché dimora abituale) del comodante nello stesso comune in cui è situato l’immobile concesso in comodato;

– il possesso, da parte del comodante, di un solo immobile in Italia (salvo il caso del possesso, oltre all’immobile concesso in comodato, della sola prima casa, purché quest’ultima si trovi nello stesso comune dell’immobile concesso in comodato e purché nelle categorie catastali A/1, A/8 e A/9).

Tali condizioni devono coesistere tutte insieme ai fini dell’agevolazione, con la conseguenza che il venir meno di una sola di esse determina la perdita dell’agevolazione stessa.

Note

[1] Dipartimento delle Finanze, Risoluzione n. 1/DF.

[2] L. 208/2015.

Acquisto della prima casa in leasing ed affitto dell’abitazione: detrazioni fiscali, sconti, agevolazioni sulle imposte ed altri benefici.

Bonus e agevolazioni sulla casa 2016

 

La normativa fiscale prevede dei benefici non solo per l’acquisto dell’abitazione, ma anche per il leasing abitativo e per l’affitto: le misure agevolative sono diverse, dalla detrazione fiscale del canone di leasing all’abbattimento della Tasi per l’inquilino.

Vediamo, in questo breve vademecum, tutti gli incentivi previsti per chi stipula tali contratti.

Leasing abitativo

Il leasing abitativo è un contratto, a metà tra l’affitto e la compravendita, mediante il quale un soggetto, detto concedente, concede in locazione ad un altro soggetto, detto utilizzatore, un’abitazione acquistata o fatta costruire su indicazione dell’utilizzatore.

L’utilizzatore ha la possibilità di riscattare l’immobile e di acquistare la proprietà, versando un prezzo già stabilito nel contratto.

Il leasing abitativo è stato introdotto in Italia dalla Legge di stabilità 2016 [1]: non si tratta, comunque, di una novità assoluta, poiché è molto simile, come forma contrattuale, al “Rent to buy”.

Anche il Rent to buy, difatti, prevede la concessione di un immobile in affitto, con la successiva possibilità di acquisto: tuttavia il leasing abitativo, rispetto al Rent to buy, offre all’utilizzatore dei vantaggi fiscali ed economici molto interessanti.

Leasing abitativo: requisiti

Le agevolazioni fiscali sono concesse, secondo le previsioni della Legge di stabilità 2016, solo ai contratti di locazione finanziaria che rispettano i seguenti requisiti:

– il concedente deve essere una banca o un intermediario finanziario iscritto nell’apposito albo;

– il concedente deve obbligarsi, verso il cliente (utilizzatore) ad acquistare o a far costruire un edificio ad uso abitativo;

– l’abitazione può essere nuova o usata, ceduta da un’impresa costruttrice, da un’impresa non costruttrice o da un soggetto non esercente attività d’impresa;

– il concedente deve impegnarsi a mettere l’edificio acquistato o fatto costruire a disposizione dell’utilizzatore;

– l’utilizzatore deve versare un canone di locazione proporzionato al prezzo di acquisto o di costruzione;

– l’utilizzatore deve destinare l’immobile ad abitazione principale;

– al termine della locazione, l’utilizzatore può acquistare la proprietà dell’abitazione pagando il prezzo di riscatto stabilito nel contratto.

Leasing abitativo: agevolazioni fiscali

Le agevolazioni fiscali, per chi acquista la casa in leasing, sono:

– una detrazione del 19% del canone e degli oneri accessori, entro 8.000 euro annui;

– una detrazione del 19% del costo di riscatto dell’abitazione, sino a 20.000 euro.

Le condizioni per ottenere l’agevolazione sono:

– l’abitazione deve essere adibita a principale entro 1 anno dalla consegna;

– l’operazione deve essere conclusa tra il 2016 e il 2020;

– l’utilizzatore- compratore deve essere under 35, non possedere altre abitazioni, e non avere un reddito complessivo superiore a 55.000 euro (se l’utilizzatore ha superato la soglia dei 35 anni, la detrazione è ridotta della metà).

Leasing abitativo: agevolazioni economiche

Un altro incentivo al leasing abitativo, di carattere economico, è previsto nel caso in cui l’utilizzatore si trovi in difficoltà nel pagamento del canone: la normativa, a tal proposito, prevede la sospensione dei pagamenti periodici, senza che si perda l’abitazione.

Perché possa domandare la sospensione, l’utilizzatore deve aver perso involontariamente l’occupazione: deve trattarsi di lavoro dipendente, parasubordinato (co.co.co.), o di contratti di agenzia o di rappresentanza.

Locazione dell’abitazione

Sono previste delle agevolazioni anche per chi ha la casa in affitto, con contratto di locazione abitativa: i benefici sono riconosciuti sia all’inquilino che, in determinate ipotesi, al proprietario, e sono di tipo fiscale ed economico.

Perché le varie agevolazioni possano essere godute, è indispensabile la registrazione del contratto di locazione: inoltre, determinati incentivi valgono solo se l’affitto è a canone concordato.

Detrazione del canone di affitto

Il canone di locazione dell’immobile destinato ad abitazione principale può essere detratto dall’Irpef, per il conduttore(l’inquilino), nella misura di:

300 euro, se il reddito dell’inquilino fino a 15.493,71 euro;

150 euro, se l’inquilino ha un reddito compreso tra 15.493,71 e 30.987,41 euro;

495,80 euro, se il reddito dell’inquilino fino a 15.493,71 euro, l’affitto è a canone concordato, e l’immobile si trova in zone ad alta densità abitativa;

247,90 euro, se l’inquilino ha un reddito compreso tra 15.493,71 e 30.987,41 euro, l’affitto è a canone concordato, e l’immobile si trova in zone ad alta densità abitativa;

991,60, se l’inquilino ha tra i 20 ed i 30 anni, ed il suo reddito è fino a 15.493,71 euro;

991,60 euro, se il reddito dell’inquilino fino a 15.493,71 euro, e questi è un lavoratore dipendente trasferito all’estero o in altra sede di lavoro in Italia, distante più di 100 km dalla residenza precedente;

495,80 euro, se il reddito dell’inquilino è compreso tra 15.493,71 e 30.987,41 euro, e questi è un lavoratore dipendente trasferito all’estero o in altra sede di lavoro in Italia, distante più di 100 km dalla residenza precedente;

Se l’inquilino è uno studente universitario, la cui sede dista almeno 100 km dalla residenza, ha diritto a una detrazione del 19% sull’importo del canone, entro i 2.633 euro.

Se l’inquilino è incapiente (cioè la somma delle detrazioni supera l’imposta), spetta comunque un credito pari alla quota di detrazione non fruita.

Il credito può essere rimborsato tramite 730 (o modello Unico), oppure può essere compensato nel modello F24, o scalato dall’Irpef dovuta per il periodo d’imposta successivo.

Abolizione Tasi

La Tasi dovuta dall’inquilino è stata abolita, ad opera della legge di Stabilità 2016:è necessario che la casa affittata sia adibita ad abitazione principale.

Incentivi per chi affitta a canone concordato

Tra le agevolazioni spettanti al proprietario che affitta un immobile a canone concordato, vi sono:

– lo sconto dell’Imu (imposta municipale unica, che ha sostituito la vecchia Ici) e della Tasi (Tasa sui servizi indivisibili) pari al 25%;

– per chi ha optato per la cedolare secca (cioè l’imposta che sostituisce l’Irpef sui canoni di locazione), l’imposta è ridotta al 10%;

– la detrazione del 20% del costo di acquisto o costruzione dell’immobile dato in affitto, entro un massimo di 300.000 euro.

L’immobile, nell’ultima ipotesi, deve essere acquistato entro il 31 dicembre 2017, non appartenere alle classi A/1, A/8 o A/9, ed avere una classe energetica non inferiore alla B.

Ecobonus 65%: gli incapienti potranno cedere il credito alle imprese

Le altre novità spiegate dalle Entrate: l'estensione della detrazione ai dispositivi domotici e ai lavori fatti dagli IACP

 

Ecobonus 65%: gli incapienti potranno cedere il credito alle imprese

19/02/2016 – Possibilità per i contribuenti ‘incapienti’ di cedere la detrazione del 65% per interventi di riqualificazione energetica alle imprese che hanno eseguito i lavori, estensione dell’ecobonus a dispositivi per il controllo a distanza e inclusione degli Istituti autonomi per le case popolari tra i beneficiari della detrazione.
Queste le principali novità, oltre alla proroga del provvedimento, introdotte dalla Legge di Stabilità 2016 sull’ecobonus 65% ed elencate nella guida aggiornata dell’Agenzia delle Entrate

Ecobonus 65%: cessione del beneficio ai fornitori

L’Agenzia chiarisce che i contribuenti che si trovano nella “no tax area” (incapienti) avranno la possibilità di cedere il corrispondente credito ai fornitori che hanno eseguito i lavori.
L'agevolazione consiste in una detrazione (o sconto) dall'Irpef in 10 anni, ma andrebbe persa nel caso di condòmini incapienti, che non pagano l’Irpef perché con redditi bassi.
Con questa novità anche gli incapienti possono avere dei “benefici” dall’intervento di riqualificazione; cedendo la detrazione fiscale all’impresa infatti, questa può applicare subito uno sconto al condominio cliente.
Tale scelta potrà essere fatta solo per le spese sostenute nel 2016 per interventi di riqualificazione energetica di parti comuni degli edifici condominiali e con modalità che saranno stabilite con un provvedimento del direttore dell’Agenzia delle Entrate.

Ecobonus 65%: estensione ai dispositivi per il controllo a distanza

Le Entrate ricordano inoltre che la Legge di Stabilità 2016 ha esteso l’agevolazione all’acquisto, installazione e messa in opera di dispositivi per il controllo a distanza degli impianti di riscaldamento o produzione di acqua calda o di climatizzazione delle unità abitative.
L’estensione del bonus ai dispositivi multimediali per il controllo da remoto ha lo scopo di  aumentare la consapevolezza dei consumi energetici da parte degli utenti e a garantire un funzionamento efficiente degli impianti.
Questi dispositivi devono consentire l'accensione, lo spegnimento e la programmazione settimanale degli impianti da remoto e mostrare, attraverso canali multimediali, i consumi energetici, mediante la fornitura periodica dei dati, oltre che mostrare le condizioni di funzionamento correnti e la temperatura di regolazione degli impianti.

Bonus per il risparmio energetico: estensione agli IACP

La Legge di Stabilità 2016 ha anche esteso la possibilità di usufruire delle detrazioni agli Istituti autonomi per le case popolari (comunque denominati) per le spese sostenute dal 1° gennaio al 31 dicembre 2016 per interventi realizzati su immobili di loro proprietà, adibiti ad edilizia residenziale pubblica.

Importi medi dei mutui ai minimi storici

 

Risultati storici per il Barometro Crif relativo al mese di gennaio 2016: in questa rilevazione, infatti, l’importo medio richiesto è arrivato al minimo storico da quando l’istituto si occupa di monitorare la situazione dei mutui in Italia. La cifra richiesta si è fermata a 120.114 euro, la più bassa di sempre, segno che le famiglie sono sempre più attente a scegliere o accontentarsi di soluzioni abitative che non intacchino eccessivamente i loro budget familiari, con rate troppo elevate. C’è da dire che sul calo delle cifre medie richieste giocano un importante ruolo anche le surroghe che, solitamente, hanno importi minori rispetto ai nuovi mutui.

Nonostante la riduzione degli importi, prosegue il trend positivo di crescita e di recupero rispetto a quanto si registrava prima della crisi: anche il mese di gennaio 2016, di fatti, è in positivo per il numero di mutui richiesti formalmente e ha segnato un +48,6% rispetto allo stesso mese del 2015. Si parla di ripresa, sì, ma se si confronta questo gennaio con quello del 2010 ci si rende conto di essere ancora lontani, seppur meno, dai livelli pre-crisi (-8,1% nel confronto 2016 vs. 2010). Ma la crescita ormai non si arresta e sono due anni che il mercato dei mutui gonfia la sua portata ininterrottamente, sia per le condizioni favorevoli dell’economia e dei costi delle case, così come della nuova apertura dei rubinetti del credito, sia per l’importantissimo ruolo delle surroghe che stanno rappresentando un importante volano della ripresa, grazie ai vantaggiosi tassi di interesse in corso.

Per quanto riguarda l’identikit del mutuo e del mutuatario italiano, rimane quella superiore ai 15 anni la durata preferita (66,2%) per il finanziamento, proprio per puntare a rate più ridotte. I due terzi delle richieste arriva dagli under 44 e il 36,4% dei richiedenti rientra nella fascia d’età tra i 35 e i 44 anni.

Acquisto prima casa: è possibile chiedere l'anticipo del Tfr?

 

Vediamo cosa prevede la legge e come presentare richiesta

Modello di casa fatto con euro

Spesso mi viene posto questo quesito: "Avvocato, è possibile chiedere l'anticipo del Tfr? Devo acquistare la prima casa".

Il nostro ordinamento riconosce ai lavoratori dipendenti la possibilità di richiedere nel corso del rapporto di lavoro un anticipo del Tfr per affrontare determinate spese. Tra queste vi rientra l'acquisto della prima casa.

La norma di riferimento, per la richiesta dell'anticipo del Tfr, è contenuta nell'art. 2120 c.c. che, al comma 6, così dispone: "Il prestatore di lavoro, con almeno otto anni di servizio presso lo stesso datore di lavoro, può chiedere, in costanza di rapporto di lavoro, una anticipazione non superiore al 70 per cento sul trattamento cui avrebbe diritto nel caso di cessazione del rapporto alla data della richiesta".

Tale norma continua precisando che la richiesta di anticipo deve essere giustificata dalla necessità di:

- eventuali spese sanitarie per terapie e interventi straordinari;

  • acquisto della prima casa di abitazione per sé o per i figli, documentato con atto notarile".

E' consentito l'accordo tra datore di lavoro e lavoratore sull'anticipo del Tfr?

La risposta all'interrogativo è positiva. Infatti, l'ultimo comma dell'art 2120 c.c. stabilisce che "condizioni di miglior favore possono essere previste dai contratti collettivi o da patti individuali. I contratti collettivi possono altresì stabilire criteri di priorità per l'accoglimento delle richieste di anticipazione". Ciò significa che ogni singolo caso deve essere valutato alla luce del CCNL e, se il datore di lavoro è d'accordo, può concedere l'anticipo del Tfr per l'acquisto della prima casa.

Chi scrive precisa che un patto individuale tra datore di lavoro e lavoratore consente di anticipare il Tfr al lavoratore anche in mancanza dei requisiti. E, ancora, il datore di lavoro, se vuole, può inoltre erogare l'anticipo del Tfr anche per più di una volta nel corso del rapporto di lavoro. Insomma, in presenza di patti individuali è possibile derogare alla disciplina sull'anticipo del Tfr con ampia libertà per le parti.

Nel caso in cui il datore di lavoro non volesse erogare l'anticipazione del Tfr che fare?

Occorre verificare se il lavoratore ha diritto, ovvero possiede i reqisiti richiesti secondo quanto stabilito dal codice civile e dalla giurisprudenza. In presenza dei requisiti il datore di lavoro è obbligato ad adempiere.

E in caso di acquisto casa per il figlio?

Anche il figlio può beneficiare dell'anticipo del Tfr, in questo caso i requisiti abitativi devono sussistere in capo a quest'ultimo.

È possibile chiedere l'anticipo del Tfr ad estinzione di un mutuo in corso?

Sì, nella misura in cui è finalizzato all'acquisto della prima casa per sé o per i propri figli, così come si può evincere dall'art. 2120 commi 6 e 8 c.c..

Forma della richiesta e documenti da allegare

La richiesta di anticipazione del Tfr va sempre fatta per iscritto e motivata.

La domanda di anticipo deve essere inoltrata alla sede dell'INPS territorialmente competente sulla base della residenza anagrafica del lavoratore richiedente.

I documenti da allegare alla richiesta di anticipazione per l'acquisto della prima casa sono:

  1. certificato di stato di famiglia del richiedente;

  2. dichiarazione che la prima casa di abitazione sia ubicata in località diversa dal Comune di residenza, dalla quale sia consentito al destinatario di raggiungere quotidianamente il luogo di lavoro;

  3. dichiarazione sostitutiva o atto notorio con cui il richiedente stesso e il coniuge si dichiara non proprietario o comproprietario di altro alloggio.

A seconda dei casi per cui si chiede l'anticipazione del Tfr, vanno aggiunti altri documenti:

  • in caso di acquisto di alloggio:

  1. copia autentica del preliminare di acquisto registrato di data non anteriore a due anni dalla presentazione della domanda di anticipazione, dalla quale risulti: il nome dell'acquirente, il prezzo pattuito e l'importo dell'acconto versato;

  • in caso di costruzione in proprio di alloggio:

  1. certificato catastale (o notarile)che attesti la proprietà dell'area sulla quale è realizzato l'immobile;

  2. copia del permesso di costruire e del certificato di inizio dei lavori rilasciati dal Comune, datato e firmato da un professionista iscritto all'albo;

  • in caso di costruzione effettuata tramite società cooperativa edilizia:

  1. copia autentica del verbale della cooperativa da cui risulti la qualità di socio assegnatario d'alloggio;

  2. dichiarazione del legale rappresentante della cooperativa attestante l'ammontare del costo dell'alloggio e delle spese sostenute e quelle da sostenere.

Entra in vigore il nuovo prestito vitalizio ipotecario. Più facile ottenere liquidità dalle banche

 

Pubblicato in G.U. il decreto 226/2015 che disciplina i finanziamenti riservati agli over 60 rimborsabili alla morte del soggetto

anziana coppia che sottoscrive un prestito

di Lucia Izzo - Dopo il via libera della Corte dei Conti, giunge in Gazzetta Ufficiale (Serie Generale del 16 febbraio 2016, n. 38) il decreto 22 dicembre 2015, n. 226 riguardante il prestito vitalizio ipotecario così come modificato dalla legge n. 44/2015.

Tale contratto ha per oggetto la concessione, da parte di banche e intermediari finanziari, di finanziamenti garantiti da ipoteca di primo grado, riservati a persone fisiche con età superiore a sessanta anni, il cui rimborso in unica soluzione sarà fatto dopo la morte di chi ha ricevuto il finanziamento.

Ma neppure gli eredi sono tenuti alla restituzione del prestito perché sono liberi di decidere se procedere al rimborso oppure lasciare che la casa sia venduta e il prestito sia rimborsato con il ricavo della vendita (fermo restando il loro diritto a farsi restituire dall'istituto l'eventuale maggiore ricavo).

La banca potrà chiedere la restituzione prima della morte solo se sono stati compiuti atti che riducano significativamente il valore del bene ipotecato, inclusa la costituzione di diritti reali di garanzia in favore di terzi, oppure se la proprietà del bene (o altro diritto reale o di godimento) è stato trasferito a terzi.

Questo strumento (per approfondimenti: Operativo il prestito vitalizio ipotecario: la casa diventa un "bancomat"), ora accessibile già a 60 anni (non più 65 come previsto in precedenza), consente dunque ai proprietari dell'immobile di ottenere liquidità senza l'obbligo di estinguere il prestito fino alla propria morte.

Il decreto pubblicato il 16 febbraio stabilisce "Regole per l'offerta al pubblico dei prestiti vitalizi ipotecari, trasparenza e certezza dell'importo oggetto del finanziamento, dei termini di pagamento, degli interessi e di ogni altra spesa dovuta".

Al contratto di finanziamento (secondo la scelta effettuata dal soggetto finanziato ai sensi dell'articolo 11-quaterdecies, comma 12-bis, della legge) saranno allegati due prospetti esemplificativi di "Simulazione del piano di ammortamento": questi illustrano il possibile andamento del debito nel tempo, evidenziando anno per anno separatamente il capitale e gli interessi, uno applicando il tasso contrattuale al momento della stipula del prestito vitalizio ipotecario, e l'altro simulando al terzo anno dalla stipula del contratto di prestito ipotecario vitalizio uno scenario di rialzo dei tassi di interesse non inferiore a 300 punti base rispetto al tasso vigente al momento della stipula del contratto o, se ha un valore inferiore a questa ipotesi, all'eventuale cap previsto dal contratto.

I prospetti devono avere una durata minima pari alla differenza tra l'età del soggetto finanziato più giovane e 85 anni, e comunque non inferiore a 15 anni, e includere tutti gli oneri dovuti al finanziatore al momento della stipula.

Disciplinati puntualmente anche "Casi e formalità che comportano una riduzione significativa del valore di mercato dell'immobile" che comportano il rimborso integrale del finanziamento in un'unica soluzione che potrà essere legittimamente richiesto dal finanziatore: a titolo esemplificativo, si rammenta, oltre alla morte del soggetto finanziato (se è cointestato vale la morte del soggetto finanziato più longevo), il trasferimento, in tutto o in parte, la proprietà o altri diritti reali di godimento sull'immobile dato in garanzia, oppure atti compiuti con dolo o colpa grave che riducano significativamente il valore dell'immobile imputabili al soggetto inanziato o a terzi datori d'ipoteca.

venerdì 19 febbraio 2016

Comodato d'uso, registrazione del contratto non più obbligatoria entro il 1º marzo

Comodato d'uso, registrazione del contratto non più obbligatoria entro il 1º marzo 
 
La nuova finanziaria prevede la riduzione del 50% della base imponibile Imu e Tasi per gli immobili concessi in comodato d'uso ai figli.  Con una parziale inversione di rotta rispetto a quanto detto in un quesito posto dalla Cna, il Mef (Ministero dell'Economia e delle Finanze), con la risoluzione n.1/DF del 17 febbraio 2016, ha "sganciato" la possibilità di ottenere le agevolazioni dalla data di registrazione del contratto. Occorre fare riferimento alla data di stipula dell'accordo, quindi, e non alla registrazione dello stesso.

Contratto comodato forma scritta

Per quanto riguarda i contratti di comodato redatti in forma scritta, la risoluzione specifica che: "per beneficiare dell’agevolazione in commento sin dal mese di gennaio 2016, il contratto di comodato redatto in forma scritta deve essere stato, quindi, stipulato entro il 16 gennaio 2016 e registrato secondo le disposizioni che regolano l’imposta di registro".
"Per i contratti stipulati in forma scritta successivamente alla suddetta data del 16 gennaio, per godere dell’agevolazione in esame occorrerà, ovviamente, registrare l’atto secondo le disposizioni che regolano l’imposta di registro, e verificare il rispetto della regola prevista dal comma 2 dell’art. 9 del D. Lgs. n. 23 del 2011 prendendo come riferimento la data del contratto di comodato".

Contratto comodato gratuito forma verbale

Per quanto riguard i contratti verbali, invece, " va ricordato che l'art. 3, comma 1, del D.P.R. n. 131 del 1986, elenca quelli che devono essere sottoposti a registrazione, fra i quali non rientra il contratto di comodato che, pertanto, non è soggetto all'obbligo di registrazione, tranne nell'ipotesi di enunciazione in altri atti".
"Si deve tuttavia considerare che la legge di stabilità per l’anno 2016, nel richiedere espressamente la registrazione del contratto di comodato ha inteso estendere tale adempimento limitatamente al godimento dell’agevolazione IMU anche a quelli verbali."
"Pertanto, con esclusivo riferimento ai contratti verbali di comodato e ai soli fini dell’applicazione dell’agevolazione in oggetto la relativa registrazione potrà essere effettuata previa esclusiva presentazione del modello di richiesta di registrazione (modello 69) in duplice copia in cui, come tipologia dell'atto, dovrà essere indicato "Contratto verbale di comodato":.
In conseguenza viene superata la data del 1º marzo come data ultima di registrazione del contratto. A far fede è quindi, ai fini dell'agevolazione solo la data di stipula del contratto stesso.

giovedì 18 febbraio 2016

Confcommercio: “Dal 2011 al 2015 le imposte sugli immobili sono cresciute del 143%”

Confcommercio: “Dal 2011 al 2015 le imposte sugli immobili sono cresciute del 143%”

Dal 2011 al 2015 le imposte sugli immobili sono cresciute del 143%, passando da 9,8 miliardi a 23,9 miliardi di euro. Una vera e propria impennata. A renderlo noto la ricerca del Centro Studi di Confcommercio-Cer “Finanza pubblica e tasse locali”.

Sul fronte residenziale, il rapporto ha sottolineato che grazie alla riduzione della prima casa nel 2016 ci sarà un calo di queste imposte del 19%. Ma ciò non basta. Negli ultimi quattro anni infatti la tassa sui rifiuti è cresciuta del 50% (da 5,6 a 8,4 miliardi) e, secondo le stime di Confcommercio, nel 2016 le imposte su immobili e rifiuti cresceranno complessivamente dell’80% rispetto al 2011, passando da 15,4 miliardi a 27,8 miliardi di euro.

Boom per le tasse locali, negli ultimi venti anni sono più che triplicate

Sul fronte della pressione fiscale e delle tasse locali il quadro non è roseo. La ricerca ha infatti evidenziato che in venti anni, dal 1995 al 2015, la pressione fiscale è passata dal 40,3% al 47% e nello stesso periodo le tasse locali sono passate da 30 miliardi a 103 miliardi di euro, con una crescita del 248%, mentre le tasse centrali sono passate da 228 miliardi a 393 miliardi con una crescita del 72%.

Sangalli: “L’Italia può farcela con meno spesa pubblica e meno tasse”

Il presidente di Confcommercio, Carlo Sangalli, ha così commentato i risultati dell’indagine: “Il 2016 sarà un anno difficile e di sfida, entriamo con un dato deludente del Pil dell’ultimo trimestre 2015, ma l’Italia può ancora farcela se si applicherà la ricetta per la crescita: ovvero meno spesa pubblica e meno tasse”.

Canone di locazione: niente imposta di registro per la riduzione

L’accordo di riduzione del canone è esente ma non il ritorno al valore iniziale; gli aumenti del canone sono validi solo entro determinati limiti.

Locatore e conduttore non devono pagare l’imposta di registro e di bollo nel caso in cui, con una scrittura privata, si accordino per la riduzione del canone di locazione. È quanto chiarito dall’Agenzia delle Entrate in una risposta fornita nel corso di Telefisco 2016. L’esatta interpretazione della legge [1], infatti, è la seguente: l’esenzione dall’imposta di registro e di bollo vale solo per l’accordo di riduzione del canone di locazione e non anche se si vuole riportare il canone al valore inizialmente pattuito.

Prima dell’entrata in vigore della norma, la scrittura privata con cui inquilino e proprietario rivedevano al ribasso il canone di locazione di un immobile scontava l’imposta di registro nella misura fissa di 67 euro e l’imposta di bollo era pari a 16 euro per ogni foglio. Tanto era stato anche oggetto di un chiarimento della stessa Agenzia delle Entrate in una risoluzione del 2010 [2]. Ora, invece, viene precisato che l’esenzione prevista dal legislatore vale solo nelle ipotesi di riduzione del canone, se l’accordo è stato stipulato per l’intera durata del contratto in essere o anche per un solo periodo (ad esempio un anno), e non anche se si vuole registrare una nuova scrittura che riporta il canone al valore originario.

Il nuovo accordo invece andrà tassato con applicazione dell’imposta di registro in misura fissa pari a 67 euro e l’imposta di bollo di 16 euro per ogni foglio.

Aumenti del canone

Le parti sono libere di determinare contrattualmente l’ammontare del canone e stabilire termini e modalità di eventuali aggiornamenti del canone stesso.

Fatti salvi gli aggiornamenti anti-inflazionistici, non è consentito durante lo svolgimento del contratto pattuire variazioni in aumento del canone.

Le parti possono invece accordarsi per una riduzione del canone di locazione.
Tale accordo può essere redatto in forma di:

–  scrittura privata non autenticata non soggetta all’obbligo di registrazione in termine fisso, ma le parti possono comunque registrarla volontariamente;

–  scrittura privata autenticata o atto pubblico, soggetta a obbligo di registrazione in termine fisso.

Proprietario e locatario, dopo un certo periodo, possono comunque pattuire un incremento del canone contrattuale senza alcuna volontà di creare extra-canoni in nero. Questa ipotesi continua a essere ammessa.

Clausola di aggiornamento

Nel silenzio della legge, si ritiene che se le parti vogliono che l’ammontare del canone sia annualmente aggiornato devono prevederlo nel contratto espressamente. In mancanza di tale clausola, il locatore nulla può pretendere ed il canone deve ritenersi stabilito in misura fissa ed invariabile per l’intera durata del contratto applicato analogicamente alle locazioni abitative.
Le parti sono libere di concordare che l’aggiornamento del canone avvenga automaticamente ovvero su richiesta del locatore. Nel primo caso il locatore non deve effettuare alcuna formalità e non incorre in decadenza se la richiesta dell’aggiornamento non è tempestiva (per cui avrà diritto di ottenere anche gli importi arretrati). È fatta salva l’estinzione del diritto per prescrizione quinquennale.
Se è previsto che l’aggiornamento del canone avvenga su richiesta del locatore, tale richiesta può, secondo parte della giurisprudenza, essere anche solo verbale o per fatti concludenti. In tal caso, il locatore ha diritto all’aggiornamento ISTAT relativo all’anno in corso alla data della richiesta e non agli arretrati.

Le parti possono prevedere che l’aggiornamento del canone avvenga in misura pari al 100% della variazione dell’indice ISTAT; possono anche prevedere che venga commisurato ad altri indici di riferimento da loro concordati.
L’unico limite è rappresentato dal fatto che la clausola di aggiornamento è valida se non comporta uno squilibrio contrattuale eccessivo con esclusivo vantaggio del locatore. In caso di contestazione, è rimessa al prudente apprezzamento del giudice la valutazione delle particolari condizioni economiche delle parti che consentano di ritenere non sproporzionate le prestazioni e, pertanto, legittima la clausola.

Note

[1] Art. 19, comma 1 d.l. n. 133/2014.

[2] Ag. Entrate, risoluzione 60/E del 28.06.2010.

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Locazione e imposta di registro: inquilino non più responsabile in solido

 

 

Mancata registrazione del contratto di affitto: non c’è più responsabilità solidale tra inquilino e conduttore; l’avviso di pagamento può ora essere spedito solo al padrone di casa.

L’Agenzia delle Entrate non potrà più mandare, agli inquilini, avvisi di pagamento per richiedere il pagamento dell’imposta di registro sul contratto di locazione non dichiarato. Questo perché la legge di Stabilità [1] sembra aver tacitamente abrogato la norma del 1986 [2] che stabiliva la responsabilità solidale tra inquilino e padrone di casa. In verità la questione non è così scontata e si presta a grossi dubbi interpretativi, frutto di un mancato coordinamento tra le norme a cui non è stato dato ancora chiarimento. Ma procediamo con ordine.

Fino al 1° gennaio 2016, la legge stabiliva che l’imposta dovuta per la registrazione dei contratti di locazione e affitto di beni immobili (nonché per le cessioni, risoluzioni e proroghe anche tacite degli stessi) da pagarsi entro trenta giorni dalla firma dell’atto, doveva essere pagata indistintamente dalle parti, locatore o conduttore. L’obbligo veniva anche esteso all’agente immobiliare a seguito della cui attività il contratto è stato concluso.

Questo implicava la cosiddetta responsabilità solidale (o “in solido”): in pratica, in caso di mancato pagamento dell’imposta di registro, l’Agenzia delle Entrate poteva mandare la richiesta di pagamento a entrambe le parti (locatore e conduttore) e da ciascuna di esse pretendere l’intero pagamento, salvo poi per quest’ultima il diritto di rivalersi, nella misura del 50%, nei confronti dell’altra, chiedendo il rimborso. Tanto è stato più volte sottolineato dalla stessa giurisprudenza della Corte di Cassazione. Inquilino e padrone di casa, insomma, erano uguali davanti al fisco.

Ora questa norma risulta, a prima lettura, del tutto incompatibile con la nuova previsione della Legge di Stabilità. Dall’inizio del 2016, difatti, la materia risulta parzialmente modificata nel seguente modo. Oggi la legge [1] prescrive espressamente che la registrazione debba essere chiesta solo dal locatore (“È fatto carico al locatore di provvedere alla registrazione nel termine perentorio di trenta giorni, dandone documentata comunicazione, nei successivi sessanta giorni, al conduttore ed all’amministratore del condominio, anche ai fini dell’ottemperanza agli obblighi di tenuta dell’anagrafe condominiale”).

Non potendosi dunque attribuire le conseguenze negative dell’altrui inadempimento a un soggetto non tenuto all’obbligo (ossia l’inquilino), quest’ultimo non potrebbe neanche essere chiamato a rispondere in solido con il primo per l’omissione di questi.

In buona sostanza, se la legge impone la registrazione solo in capo al padrone di casa, da compiersi entro 30 giorni (con presentazione del contratto all’ufficio di registro), non potrebbe poi inviare, anche all’inquilino, la richiesta di pagamento dell’imposta di registro eventualmente non versata.

È il caso, peraltro, di ricordare, a sostegno di ciò, che sempre la legge di Stabilità offre una tutela particolare per il conduttore il quale abbia dovuto “subire” un contratto di affitto non registrato o con indicazione di un canone diverso da quello effettivamente corrisposto: egli, nei casi di nullità del contratto di affitto (nullità che consegue, appunto, dalla mancata registrazione) può chiedere al giudice, entro sei mesi dalla riconsegna dell’immobile locato, la restituzione dei canoni di locazione corrisposti in maniera superiore a quelli degli accordi collettivi o di mercato [3].

L’incompatibilità tra le due normative porterebbe a pensare che la successiva avrebbe abrogato la precedente per incompatibilità tra le due discipline. Non si potrebbe, infatti, da un lato accordare tutela all’inquilino che abbia, giocoforza, dovuto subire l’omissione della registrazione da parte del locatore e, nello stesso tempo, poi, inviargli la richiesta di pagamento dell’imposta con le eventuali sanzioni.

Se l’obbligo di effettuare la registrazione spetta unicamente al proprietario, come potrebbero peraltro gli uffici accettare l’adempimento da parte di un soggetto differente?

Il fatto, però, che non sia intervenuta alcuna abrogazione espressa potrebbe far pensare alla convivenza di entrambe le norme, la prima con effetti solo civilistici, la seconda con effetti tributari. Dunque, il locatore che non registri l’atto compie un atto sanzionabile dal punto di vista civilistico, ma se il conduttore vuol evitare conseguenze fiscali, deve attivarsi personalmente a registrare il contratto. Quindi, in base alla normativa fiscale, il conduttore resta obbligato alla registrazione. È chiaro, però, che se la registrazione avviene a cura del conduttore l’obbligo di comunicazione all’amministratore (ma ovviamente non all’inquilino) resterebbe a carico del locatore.

Insomma, la normativa non è chiara: dal canto nostro speriamo che l’Agenzia delle Entrate, di norma così solerte a richiedere l’adempimento degli obblighi tributari, voglia questa volta risolvere il dubbio interpretativo prima di iniziare a spedire le prossime lettere di pagamento ai cittadini, vittime ancora una volta di una pessima tecnica legislativa, incapace di coordinare tra loro vecchie e nuove norme.

In pratica

La legge di Stabilità 2016, prevede per il locatore l’obbligo di registrare il contratto di locazione entro 30 giorni, a pena di nullità. La norma non è coordinata con il Testo unico dell’imposta di registro norma di carattere fiscale che pone l’obbligo di registrazione a carico delle «parti contraenti» di scritture private non autenticate, compreso quindi il conduttore.

Le modifiche introdotte dalla legge di Stabilità 2016 non abrogano espressamente il Testo unico dell’imposta di registro che prevede l’obbligo di versamento dell’imposta a carico sia del locatore che del conduttore nel caso di contratti di locazione abitativa. Tuttavia, anche se non c’è stata una abrogazione espressa, le due norme sono tra loro in forte contrasto. Risulterebbe contraddittorio che l’Agenzia delle Entrate chieda il pagamento a un soggetto non tenuto ad effettuarlo.

Sempre secondo la legge di Stabilità, il locatore è tenuto – entro 60 giorni dall’avvenuta registrazione del contratto – a darne comunicazione all’inquilino e all’amministratore di condominio ai fini della tenuta dell’anagrafe condominiale. Si ritiene sufficiente la comunicazione dell’avvenuta registrazione, senza i dettagli del contratto. Inoltre, si può ritenere che le variazioni del canone non vadano comunicate.

Se la registrazione non avviene entro 30 giorni dalla stipula, la legge di Stabilità 2016 prevede che le pattuizioni siano nulle dal punto di vista civilistico. Di conseguenza, il conduttore può ricorrere al giudice per chiedere l’accertamento dell’esistenza del contratto e la fissazione di un canone non superiore a quello minimo previsto per le locazioni a canone concordato.

Note

[1] Art. 1, co. 59, sub. 1, L. 208/2016, legge di stabilità 2016.

[2] Art. 17 e 57 Dpr 131/1986.

[3] Art. 1, co. 59, sub. 2, 3, 4, L. 208/2016, legge di stabilità 2016.

mercoledì 17 febbraio 2016

Non paghi le rate del mutuo? La banca si prende la casa (senza passare dal Tribunale). Tutta la verità sul nuovo decreto

Non paghi le rate del mutuo? La banca si prende la casa (senza passare dal Tribunale). Tutta la verità sul nuovo decreto

 

Secondo la bozza del decreto legislativo di attuazione della direttiva europea 2014/17, banca e mutuatario possono accordare in caso di inadempimento di quest'ultimo la restituzione dell'immobile dato in garanzia, senza passare dal tribunale. Un modo per dare respiro al mercato o uno strumento di "ricatto" in mano alle banche? Lo abbiamo chiesto a MutuiOnline, Fiaip, Assoimmobiliare e Asso-Consum

Una misura giusta via per dare respiro al mercato dei mutui ipotecari o uno strumento in mano alle banche per ricattare chi va a chiedere un finanziamento? Fino alla fine del mese le commissioni parlamentari competenti hanno tempo per esprimere il proprio parere sul decreto legislativo emanato dal governo per recepire la direttiva europea 2014/17. Un corposo provvedimento riguardante i contratti di credito al consumo relativi ai beni immobili residenziali, all'interno del quale è finito nel mirino principalmente l'articolo 120-quinquiesdecies.

Cosa succede se non paghi le rate del mutuo

In tale articolo si introducono novità in caso di inadempimento del consumatore. Particolarmente oggetto d'attenzione è il terzo comma, nel quale si sancisce che “le parti del contratto possono convenire espressamente, al momento della conclusione di contratto di credito o successivamente, che in caso di inadempimento del consumatore la restituzione o il trasferimento del bene immobile oggetto di garanzia reale o dei proventi della vendita del medesimo bene comporta l'estinzione del debito, fermo restando il diritto del consumatore all'eccedenza”.

In pratica il contratto potrà prevedere la cessione dell'immobile, offerto in garanzia per ottenere il mutuo, direttamente all'istituto creditore. La ratio è quella di accorciare notevolmente i tempi per il recupero del credito, rispetto a quelli assai lunghi della normale procedura che passa attraverso il tribunale che accerta lo stato di insolvenza, pignora il bene e lo mette all'asta. Un iter anche costoso e mediante il quale l'immobile viene venduto a un prezzo assai più basso di quello di mercato.

Divieto patto commissorio

C'è chi, però, ha visto nella nuova disciplina proposta dall'esecutivo un aggiramento del “divieto di patto commissorio”, previsto dall'articolo 2744 del codice civile, secondo il quale "è nullo il patto col quale si conviene che, in mancanza del pagamento del credito nel termine fissato, la proprietà della cosa ipotecata o data in pegno passi al creditore. Il patto è nullo anche se posteriore alla costituzione ipoteca o del pegno”.

Un accostamento che non sussiste, secondo Roberto Anedda, direttore marketing di Mutuionline, perché la nuova norma non prevede che, in caso di situazione debitoria, il bene passi automaticamente al creditore, ma che le due parti si possano mettere d'accordo per una sua cessione.

Di diverso parere è il presidente dellai Fiaip, la Federazione agenti immobiliari professional, secondo il quale “il fatto che per accedere a questo istituto sia necessario che il cliente sia d’accordo è assolutamente irrilevante in quanto tutti conoscono la forza di persuasione che le banche possono mettere in campo nei confronti dei loro clienti”.

Un timore di cui è conscio anche Anedda che, però, auspica siano le necessarie norme attuative che seguiranno a scongiurare.

Dato che i tempi lunghi di recupero dei crediti sono sempre stati tra i motivi per i quali le banche italiane si sono dette costrette ad applicare spread più alti, questa possibilità dovrebbe consentire di offrire condizioni migliori.

Piuttosto che dire al cliente 'o fai così o il mutuo non te lo do', la banca dovrebbe essere obbligata a specificare quanto egli risparmia se sceglie la cessione dell'immobile in caso di insolvenza, rispetto a un mutuo a condizioni normali”.

Ciononostante, la Fiaip è sul piede di guerra e chiede lo stralcio dell'articolo 120-quinquiesdecies. Sulla stessa lunghezza d'onda il presidente di Asso-Consum Aldo Perrotta, secondo il quale “se questo decreto fosse approvato il cittadino rimarrebbe indifeso. Sarebbe l’ennesimo regalo alle banche. Con la scusa di agevolare il consumatore quest’ultimo verrà solo fregato”. In realtà, trattandosi di decreto derivante dalla delega data al governo per il recepimento delle direttive europee, il Parlamento non è chiamato ad approvarlo ma solo, attraverso le commissioni competenti, a fornire un parere. Dovesse essere negativo sulla norma in questione, l'esecutivo potrebbe anche non tenerne conto affatto, come è già accaduto anche nel recente passato.

Roberto Busso, presidente del Comitato Assoimmobiliare “Politiche di Valutazione degli Asset Immobiliari”, spera che “ legislatore italiano tenga in considerazione lo spirito di cui alla direttiva comunitaria che ha come obiettivo quello di tutelare la parte più debole”, sottolineando a sua volta che secondo diversi interpreti la norma così come è stata scritta possa essere in conflitto con il codice civile. Inoltre, rimarca un altro punto controverso: la nuova regolamentazione varrà per i contratti stipulati dal 21 marzo in poi, ma sembra esserci spazio di manovra anche per una modifica dei contratti di finanziamento in essere.

Anedda mette in guardia da un altro rischio al quale si andrebbe incontro, se questa norma entrasse in vigore. Ancora una volta, dovranno essere i decreti attuativi a scongiurarlo.

“La banca – dice – potrebbe non avere alcun interesse a vendere al miglior prezzo possibile, ma solo a vendere in fretta, dato che l'eccedenza rispetto al credito va restituita al cliente.

Occorre fissare dei criteri per garantire che la vendita avvenga a un prezzo congruo”.

Infine, il quarto comma dell'articolo dice che “qualora a seguito di inadempimento e successiva escussione della garanzia residui una debito del consumatore, il relativo obbligo di pagamento decorre dopo sei mesi dalla conclusione della procedura esecutiva”. Ma tra le richieste di modifica avanzate da qualcuno c'è quella di estinguere il debito al trasferimento del bene, a prescindere dalla copertura integrale o meno dello stesso.

domenica 14 febbraio 2016

Compravendita immobiliare. Se il venditore non rispetta il termine di consegna può essere condannato alla restituzione della caparra

Nel contratto di compravendita di un immobile l'inosservanza del termine essenziale per l'adempimento di un'obbligazione legittima la parte adempiente ad esercitare il diritto di recesso e, se è stata versata una caparra, a trattenere il doppio della stessa.

L'acquirente di un immobile cita in giudizio la parte venditrice, per sentire dichiarare la legittimità del proprio recesso dal contratto preliminare di compravendita a fronte dell'inadempimento della venditrice dell'obbligo di consegnare l'immobile entro la data pattuita poiché risultante privo del certificato di abitabilità. In primo grado il Tribunale accoglie le richieste dell'acquirente con la condanna di parte venditrice alla restituzione del doppio della caparra versata.

La venditrice impugna tale pronuncia dinanzi alla Corte d'appello ribadendo l'illegittimità della sentenza di primo grado poiché: parte attrice dopo aver intimato diffida ad adempiere ex art. 1454 c.c., non avrebbe potuto richiedere la dichiarazione della legittimità dell'esercizio del recesso, e che la stessa parte non avrebbe potuto esercitare il diritto di recesso per essere ormai intervenuta l'avvenuta risoluzione del contratto per inadempimento.

Per quanto riguarda quest'ultimo motivo di censura, la Corte di appello ha stabilito la sua infondatezza alla luce di quella che è la consolidata giurisprudenza di legittimità secondo cui “La risoluzione del contratto di diritto per inosservanza del termine essenziale (art. 1457 cod. civ.) non preclude alla parte adempiente, nel caso in cui sia stata contrattualmente prevista una caparra confirmatoria, l'esercizio della facoltà di recesso ai sensi dell'art. 1385 cod. civ. per ottenere, invece del risarcimento del danno, la ritenzione della caparra o la restituzione del suo doppio, poiché dette domande hanno una minore ampiezza rispetto a quella di risoluzione e possono essere proposte anche nel caso in cui si sia verificata di diritto la risoluzione stessa; in tal caso, però, si può considerare legittimo il recesso solo quando l'inadempimento dell'altra parte non sia di scarsa importanza avuto riguardo all'interesse del recedente(Cass. n. 21838/2010; Cass. n. 23315/2007)

Per quanto concerne invece la mancanza di prova in merito alla gravità dell'inadempimento di parte venditrice la Corte d'appello, nel respingere anche tale motivo di censura, ha ribadito che non sussistono i presupposti per escludere la gravità dell'inadempimento di parte venditrice, dato che nel primo grado di giudizio l'attore ( acquirente) aveva opportunamente ed ampliamente dimostrato i seguenti fatti:

·la mancata consegna dell'immobile entro la data fissata dal preliminare;

·la mancata stipula del contratto definitivo entro la data fissata sempre dal preliminare;

·la violazione della garanzia della libertà da iscrizioni e prescrizioni pregiudizievoli, dato che risultava trascritta una domanda giudiziale avente ad oggetto alcune parti comuni dell'immobile.

In base a tali motivazioni, quindi, la Corte abruzzese ha confermato la sentenza di primo grado ribadendo adeguatamente motivata tale pronuncia:

a) sia riguardo alla gravità dell'inadempimento di parte venditrice che non aveva consegnato l'immobile alla data pattuita;
b)non si era premurato di ottenere entro tale data il certificato di abitabilità, e di conseguenza non aveva potuto attivarsi per la stipula del contratto definitivo entro la data fissata dal contratto preliminare.

Mentre in merito alla gravità dell'inadempimento di controparte, la stessa sentenza di primo grado aveva correttamente stabilito che l'acquirente aveva legittimamente esercitato il suo diritto di recesso dato che i fatti di causa hanno dimostrato che l'inadempimento della controparte non era di scarsa importanza.

In conclusione, quindi, a fronte del grave inadempimento di parte venditrice, l'acquirente adempiente ha non solo la facoltà di esercitare il diritto di recesso, ma anche il diritto di ottenere dalla controparte la restituzione del doppio della caparra versata.

La veranda deve essere abbattuta se antiestetica e se si affaccia sul cortile dell'edificio condominiale

 

 

L'alterazione del decoro può riguardare anche una facciata interna di un edificio e può essere realizzata anche con una veranda priva di autorizzazione.

La causa giunta all'esame della Cassazione, riguarda l'azione instaurata dinanzi al Tribunale ad opera di alcuni condomini per l'accertamento:

-della natura condominiale di un cortile occupato dai convenuti;

-della lesione del decoro architettonico in seguito alla realizzazione di una veranda non autorizzata, nonché per la condanna dei convenuti alla rimozione di una intelaiatura metallica che permette la collocazione di tende da sole sul muro comune.

La sentenza di primo grado si conclude con l'accertamento della natura condominiale del cortile, e con la condanna dei convenuti alla rimozione del supporto delle tende da sole.

I convenuti impugnano la sentenza di primo grado dinanzi alla Corte d'appello che, invece, conferma la sentenza di primo grado condannando i convenuti al pagamento delle spese riguardanti due gradi di giudizio, inoltre la stessa sentenza ha confermato il rigetto della domanda riguardante l'alterazione del decoro architettonico dell'edificio da parte dei convenuti.

I convenuti che contestano la proprietà esclusiva del cortile, ricorrono in Cassazione sostenendo che la sentenza emessa dalla Corte d'appello non aveva tenuto conto del fatto che tale cortile è destinato al loro uso trattandosi di spazio circostante l'appartamento di loro proprietà che è l'unico ad avervi accesso, puntualizzando che la servitù di veduta che esercitano i condomini degli appartamenti al piano terra su tale cortile, non può essere considerato elemento utile dal quale dedurre la natura condominiale del medesimo cortile.

Secondo la Cassazione tale motivo di ricorso è infondato, a tal osserva che la sentenza di secondo grado aveva correttamente valutato tale aspetto limitandosi ad interpretare l'atto di compravendita dell'immobile dei convenuti dal quale si evinceva che il cortile in questione non figurava fra le pertinenze del loro appartamento.

Fra l'altro, precisa ancora la Cassazione la natura condominiale del cortile si evince anche dal principio sancito dall'art. 1117 del codice civile norma che considera parti comuni i cortili salvo che il contrario non risulti da un titolo.

 

Per quanto concerne, invece, la questione relativa al fatto se la veranda non autorizzata possa ledere il decoro architettonico anche se non è posta sulla facciata principale dell'edificio, la sentenza cassa la pronuncia di secondo grado che aveva radicalmente escluso che le verande interne possano alterare il decoro architettonico di un edificio condividendo, in tal modo, la valutazione effettuata dal giudice di primo grado.

A tal riguardo precisa la Cassazione rileva che per stabilire se una veranda collocata nella facciata posteriore di un edificio alteri il decoro architettonico “ il giudice di merito ha il compito di stabilire volta per volta se in concreto ricorra il denunciato danno all'aspetto della facciata esterna o interna che sia … di talchè non costituisce motivazione appagante limitarsi a rilevare che trattasi di facciata interna”

 

In pratica per stabilire se una veranda collocata sulla facciata interna di un edificio compromette il decoro architettonico occorre tener conto anche di precedenti pronunce di legittimità che hanno già chiarito il concetto di decoro architettonico precisando che “ ai fini della tutela prevista dall'art. 1120 c.c., deve intendersi l'estetica dell'edificio, costituita dall'insieme delle linee e delle strutture ornamentali che ne costituiscono la nota dominante ed imprimono alle varie parti di esso una determinata, armonica fisionomia, senza che occorra che si tratti di edifici di particolare pregio artistico(Cass. 18350/2013; Cass. 10350/2011; Cass. 27551/2005).