sabato 20 maggio 2017

Costruire una tettoia: regole e permessi

 

Costruire una tettoia: regole e permessi

L’AUTORE: Redazione

 

Si può costruire una tettoia senza chiedere l’autorizzazione al condominio, ma non deve togliere aria al vicino del piano di sopra né deve ledere il decoro del palazzo.

Quando si costruisce una tettoia, a parte il permesso al Comune (che attiene al rispetto della normativa urbanistica), ci sono le regole del codice civile da rispettare: il che significa, da un lato, non violare il diritto del proprietario del piano di sopra di affacciarsi e vedere il cortile sottostante, dall’altro non ledere l’estetica dell’edificio. In tutto questo, però, chi vuol costruire una tettoria, non deve chiedere il permesso al condominio. È quanto risulta da due interessanti sentenze: la prima della Cassazione emessa qualche ora fa [1]; la seconda dal tribunale di Roma nello scorso mese di marzo. Ma procediamo con ordine e vediamo, più nel dettaglio, per chi vuol costruire una tettoia, le regole e i permessi da rispettare.

Costruire una tettoia e permesso del Comune

La prima questione che bisogna affrontare – e anche la più seria – che bisogna affrontare se si vuole costruire una tettoia è quella della richiesta al Comune del cosiddetto permesso di costruire, ossia la vecchia licenza edilizia. La giurisprudenza del Consiglio di Stato ha da sempre ritenuto che, per realizzare una tettoia, è necessaria l’autorizzazione del Comune (appunto il «permesso di costruire»). In difetto scatta il reato di abuso edilizio (leggi Tettoia sul terrazzo, ci vuole il permesso di costruire?). L’illecito penale si prescrive in 4 anni (5 se arriva il rinvio a giudizio), mentre l’ordine di demolizione non cade mai in prescrizione e può essere intimato in qualsiasi momento, anche nei confronti del successivo acquirente dell’immobile (il quale però non risponde del reato che viene invece imputato all’autore materiale dell’abuso). Sul tema segnaliamo però una interessante sentenza del Tar Campania che ha ritenuto non necessario il permesso di costruire per la tettoia aperta su tre lati (per la sentenza e il commento leggi Tettoia aperta su tre lati, non serve il permesso di costruire). Si tratta tuttavia di un caso isolato.

Costruire una tettoia senza il permesso del condominio

Non serve il permesso del condominio, dell’assemblea o dell’amministratore, per costruire una tettoia sul proprio terrazzo. Questo perché ciascuno è libero di fare ciò che vuole nel proprio appartamento purché:

  • non alteri il decoro architettonico della facciata dell’edificio (si tratta dell’estetica e delle linee principali del palazzo per come disegnate dal costruttore);
  • non pregiudichi la stabilità del palazzo.

Se ricorrono tali due presupposti, l’assemblea può intimare al proprietario la demolizione della tettoia benché già costruita. Per tagliare invece la testa al toro ed essere sicuro che non arrivi mai una contestazione di questo tipo da parte degli altri condomini, il titolare dell’appartamento può chiedere l’autorizzazione preventiva all’assemblea: se questa la concede, non potrà più pretendere l’abbattimento della tettoia.

Solo le norme di un regolamento di condominio «contrattuale» (ossia approvato all’unanimità in assemblea o con la firma del rogito da parte dei singoli proprietari) «possono modificare tali regole e, ad esempio, imporre l’obbligo del permesso preventivo dell’assemblea prima di costruire la tettoia, essendo consentito all’autonomia privata di stipulare convenzioni che pongano nell’interesse comune limitazioni ai diritti dei condomini. Il regolamento può anche fissare una definizione più rigorosa del decoro architettonico rispetto a quella indicata dal codice civile (leggi Estetica del palazzo, quando la facciata viene deturpata) sino ad imporre la conservazione degli elementi attinenti alla simmetria, all’estetica, all’aspetto generale dell’edificio, quali esistenti nel momento della sua costruzione o in quello della manifestazione negoziale successiva. È questo il chiarimento fornito dalla Cassazione citata in apertura [1].

Costruire una tettoia senza dar fastidio al vicino del piano di sopra

C’è un’ultima regola da rispettare per chi vuole costruire una tettoia: questa non deve impedire a chi abita sopra la cosiddetta «veduta in appiombo», ossia la possibilità di affacciarsi sullo spazio sottostante. Anche l’aria e il panorama sono un diritto che si acquista insieme all’appartamento e che non può essere limitato da successive costruzioni. In caso di tettoia troppo ampia da togliere l’affaccio al vicino, quest’ultimo ha la possibilità di chiederne la demolizione.

Secondo la recente sentenza del Tribunale di Roma [2], non si può invocare un asserito diritto alla privacy e alla protezione dalla pioggia e dalle intemperie climatiche per rivendicare il mantenimento della tettoia: se la costruzione comprime il diritto del vicino alla veduta appiombo, il proprietario deve rimuoverla.

La giurisprudenza è d’accordo nel sostenere che il proprietario del singolo piano ha diritto «di esercitare dalle proprie aperture la veduta in appiombo fino alla base dell’edificio e di opporsi conseguentemente alla costruzione di altro condomino che, direttamente o indirettamente, pregiudichi l’esercizio di tale suo diritto, senza che possano rilevare le esigenze di contemperamento con i diritti di proprietà e alla riservatezza del vicino».

note

[1] Cass. sent. n. 12190/17 del 16.05.2017.

[2] Trib. Roma sent. n. 4479/17 del 6.03.2017.

Calcolo Imu e Tasi 2017 per la prima rata di giugno

 

Notizie immobiliari|team

Gtres Gtres

E' ormai cominciato il conto alla rovescia per il pagamento della prima rata di Imu e Tasi 2017, che anche quest'anno dovrà essere versata entro il 16 giugno. Le modalità di calcolo sono le stesse per le due imposte.

Calcolo Imu e Tasi

Per il calcolo dell'Imu e della Tasi 2017 bisogna partire dalla rendita catastale, presente nel rogito o nel contratto d'affitto dell'immobile. Se non ci conosce la base imponibile è possibile effettuare una visura catastale gratuita sul sito dell'Agenzia delle Entrate o in uno degli uffici presenti sul territorio di pertinenze.
Successivamente è necessario:

  • Rivalutare la rendita del 5%
  • Moltiplicare la rendita rivalutata per il coefficiente di ogni immobile per cui si effettuano i versamenti
  • Moltiplicare il risultato ottenuto per le aliquote deliberate da ogni Municipio

Coefficienti imu 2017 e tasi coefficiente di moltiplicazione

I coefficienti che devono essere applicati alla rendita catastale variano a seconda di categoria catastale a cui appartengono gli immobili. In particolare:

  • Coefficiente di moltiplicazione 160 : categoria A (esclusa la A10), categoria C2, C6, C7
  • Coefficiente di moltiplicazione 140: categoria B, C3, C4, C5
  • Coefficiente di moltiplicazione 80: Categoria A/10, D/5
  • Coefficiente di moltiplicazione 65: categoria D (esclusa la D5)
  • Coefficiente di moltiplicazione 55: categoria catastale C1

Compravendite immobiliari, perché usare il prezzo valore è più conveniente e ti evita problemi con il Fisco

 

Notizie immobiliari|Annastella Palasciano

Introdotto da una legge del 2005, il sistema del prezzo valore è un meccanismo per il quale la base imponibile delle imposte sulle compravendite immobiliari è costituita non dal prezzo, ma dal valore catastale. La sua applicazione non solo consente benefici fiscali per il compratore, ma evita il nascere di contenziosi con il Fisco. Per queste ragioni, il Consiglio Nazionale del Notariato auspica la sua estensione anche alle transazioni di immobili non abitativi.

Compravendita tra privati con il sistema del prezzo valore

"Il prezzo valore è un sistema che si applica ai trasferimenti di abitazioni e relative pertinenze tra persone fisiche che non agiscono nell’ambito di attività commerciali, spiega Enrico Sironi, Consigliere Nazionale del Notariato. "La tassazione non viene fatta in riferimento al prezzo, ma al valore catastale, che è normalmente inferiore al primo".

"Prima del 2005 alcuni acquirenti occultavano il reale prezzo d'acquisto di un immobile per pagare meno imposte. Con questo meccanismo, invece, emergono i reali valori degli immobili e si evitano accertamenti ed eventuali contenziosi con l'Agenzia delle Entrate".  

Come si calcola il prezzo valore

Il valore catastale, base imponibile nel sistema del prezzo-valore, si determina moltiplicando la rendita catastale (rivaluta del 5%) per il coefficiente 120 (in assenza di agevolazioni prima casa). Nel caso in cui, ad esempio, venga compravenduta una casa con una rendita catastale di 800 euro, ad un prezzo di 150.000 euro, la base imponibile su cui applicare l'imposta di registro sarebbe pari a 100.800 (800 x1,05 x120). Pertanto l'imposta sarebbe pari a 9072 euro.

Senza l'applicazione del sistema del prezzo-valore, l'imposta dovrebbe essere calcolata sul prezzo della casa (150.000 euro) e sarebbe quindi di 13.500

"Nella compravendita di abitazioni ormai tutti usano il sistema del prezzo valore. Anche nei casi ridottissimi in cui il prezzo sia inferiore al valore catastale - come nel caso di case situate in zone a forte rischio sismico -  gli acquirenti lo scelgono perché preferiscono pagare delle imposte lievemente superiori, ma essere sicuri che non ci saranno futuri accertamenti e contenziosi da parte del Fisco". 

Proprio per questa ragione, nel corso di una recente audizione nella Commissione bicamerale per la semplificazione, il Notariato ha chiesto l'estensione ai fabbricati non abitativi, perché "comporterebbe un'evidente semplificazione fiscale, con conseguente risparmio di costi, tempo e denaro, tanto per il cittadino che per l'Amministrazione pubblica. E’ un sistema di predeterminazione dell’imposta da pagare che fa contenti tutti".

Ma perché questo sistema non è stato applicato fin da subito a qualsiasi tipologia immobiliare? Spiega Sironi che il sistema è stato approvato perché "il nostro ordinamento costituzionale favorisce la casa familiare, ma spesso è stato trasmesso un messaggio erroneo: quello di uno sconto sulle imposte e di una perdita di gettito per l'Erario". "In realtà con questo meccanismo i valori dichiarati negli atti sono saliti, la gente non ha più nessun motivo per fare del nero. È un’operazione che garantisce fin dall’inizio un rapporto chiaro tra il cittadino e il Fisco".

sabato 13 maggio 2017

Ristrutturazione prima casa e trasferimento residenza

 

Ristrutturazione prima casa e trasferimento residenza

L’AUTORE: Maria Monteleone

I lavori di ristrutturazione straordinaria possono essere considerati causa di forza maggiore e impedire la decadenza dalle agevolazioni prima casa.

I lavori di ristrutturazione straordinaria dell’immobile possono giustificare il mancato trasferimento della residenza entro 18 mesi dall’acquisto e consentire così al contribuente di mantenere le agevolazioni prima casa.

La legge concede le agevolazioni prima casa (riduzione delle imposte di registro, ipotecaria e catastale) a condizione che l’acquirente si impegni a trasferire la propria residenza nel Comune in cui è ubicato l’immobile.

Il mancato trasferimento della residenza entro 18 mesi dall’acquisto, così come la vendita della casa prima del decorso di 5 anni, comporta la perdita delle agevolazioni fiscali. Ciò vuol dire che il contribuente deve pagare le imposte di registro, ipotecaria e catastale nella misura ordinaria, nonché una sovrattassa pari al 30 per cento delle stesse imposte.

Inoltre, se si è trattato di acquisto soggetto a Iva, l’ufficio dell’Agenzia delle entrate presso cui sono stati registrati i relativi atti deve recuperare nei confronti degli acquirenti la differenza fra l’imposta calcolata in base all’aliquota applicabile in assenza di agevolazioni e quella risultante dall’applicazione dell’aliquota agevolata, nonché irrogare la sanzione amministrativa, pari al 30 per cento della differenza medesima.

Tuttavia, la legge ammette la causa di forza maggiore, cioè giustifica il mancato adempimento dell’impegno assunto dal contribuente nei confronti del Fisco qualora esso sia dovuto ad una causa imprevedibile e non imputabile alla sua volontà.

La giurisprudenza ha nel tempo approfondito il concetto di forza maggiore in tema di agevolazioni prima casa, affermando il seguente principio: «il mancato stabilimento nel termine di legge della residenza nel comune ove è ubicato l’immobile acquistato con l’agevolazione prima casa non comporta la decadenza dall’agevolazione qualora tale evento sia dovuto ad una causa di forza maggiore, sopraggiunta in un momento successivo rispetto a quello di stipula dell’atto di acquisto dell’immobile stesso» [1].

Per esempio, una recente sentenza della Commissione Tributaria Provinciale di Brindisi [2] ha ritenuto che i lavori di ristrutturazione straordinaria dell’immobile possano costituire causa di forza maggiore in quanto hanno di fatto ha impedito al contribuente, in buona fede, di trasferire la residenza entro il termine previsto dalla legge.

Nel caso di specie i giudici hanno ritenuto che i lavori di ristrutturazione/restauro conservativo dell’immobile fossero strettamente funzionali e necessari alla destinazione ad abitazione principale, trattandosi di opere resesi necessarie successivamente all’acquisto e, peraltro, connotate per il loro carattere di stretta funzionalità e inevitabilità, rispondendo generalmente alle finalità di conservazione e utilizzazione del fabbricato anche in considerazione delle connesse ragioni di carattere sanitario (fossa biologica) e di sicurezza (recinzione).

Occorre ovviamente, ai fini dell’operatività della causa di forza maggiore, che i lavori di ristrutturazione si siano resi necessari solo successivamente all’acquisto. Il contribuente non sarebbe infatti giustificato se, pur sapendo di dover ristrutturare la casa e di non potervi trasferire la residenza, si sia impegnato a farlo nel termine di 18 mesi.

Sempre con riguardo all’ipotesi dei lavori di ristrutturazione straordinaria, una recente sentenza della Cassazione [3] ha ritenuto sussistente la causa di forza maggiore nel caso di un contribuente che non aveva potuto trasferire la propria residenza entro diciotto mesi, a causa nell’esecuzione di opere di manutenzione straordinaria deliberate dal condominio successivamente all’acquisto.

note

[1] Cass. sent. n. 17442/2013.

[2] CTP Brindisi, sent. n. 362/2017.

[3] Cass. sent. n. 8351/2016.

Appartamento in affitto: si possono fare modifiche?

 

Appartamento in affitto: si possono fare modifiche?

Addizioni, innovazioni e miglioramenti dell’appartamento fatti dall’affittuario: bisogna chiedere il permesso al padrone di casa e come ci si regola con le spese?

Non poche volte, quando una persona prende un appartamento in affitto, si riserva di aggiustarlo e sistemarlo successivamente per quelle che sono le proprie esigenze, andando ad effettuare interventi, più o meno stabili, suscettibili di modificarne l’iniziale condizione. Ma fino a che punto l’inquilino che prende un appartamento in affitto può fare modifiche? Quando i costi sostenuti per tali lavori gli vengono restituiti? E se il padrone di casa dovesse imporgli, alla fine del contratto, di ripristinare l’immobile per come era inizialmente? Potrebbe farlo oppure no? Il codice civile contiene una risposta a tutte queste domande.

Prima di spiegare se, in caso di appartamento in affitto, si possono fare modifiche dobbiamo fare una precisazione importante. La legge non usa il termine «modifiche» tutte le volte in cui parla di lavori dell’inquilino all’interno della casa presa in locazione. Per cui, se vai a cercare la soluzione ai tuoi problemi sul codice civile, non troverai mai questa parola, bensì quelle di addizioni, innovazioni e miglioramenti. Sebbene, nel lessico comune, tali operazioni vengano spesso definite come «modifiche», per ognuna di esse è prevista una disciplina diversa. Procediamo quindi con ordine e vediamo cosa prevede la legge in caso di lavori nell’appartamento in affitto.

Le modifiche che comportano innovazioni

Forse il concetto che più si avvicina all’idea di «modifiche nell’appartamento in affitto» è quello di innovazioni. Si pensi alla realizzazione di un soppalco, di una parete in cartongesso, a una struttura ricavata nella parete dove nascondere una cassaforte o incassare un mobiletto. Si tratta cioè di tutte quelle opere che comportano qualcosa di nuovo all’interno dell’appartamento, secondo le utilità e gli scopi dell’inquilino.

Le innovazioni sono consentite a condizione che non alterino o modifichino la struttura e la destinazione dell’immobile. Secondo la Cassazione [1], l’obbligo previsto dal codice, in capo all’affittuario, di osservare la diligenza del buon padre di famiglia nell’utilizzazione della cosa locata esclude che il conduttore possa alterare lo stato della cosa, sia pure in parte, nel corso del rapporto.

La soluzione, dunque, è quella di inserire nel contratto di affitto una apposita clausola con cui il padrone di casa autorizza a monte l’inquilino ad apportare specifiche modifiche all’appartamento, indicandole nel dettaglio [2]. Qualora ciò non sia stato previsto, bene farà l’inquilino a chiedere l’autorizzazione scritta di volta in volta dimodoché, alla scadenza del contratto, non gli si possano chiedere i danni per gli interventi eseguiti.

Il contratto di affitto può anche prevedere un divieto di innovazioni o un obbligo del conduttore di ottenere una preventiva autorizzazione. Così, in tal caso, il padrone di casa può mandare via l’inquilino che abbatte una parete nonostante il divieto riportato nel contratto.

Se, però, il contratto non prevede appositi divieti, l’affittuario è libero di effettuare quelle modifiche all’appartamento – o meglio dette «innovazioni» – che non alterino o modifichino la struttura e la destinazione dell’immobile. Di quali si tratta? Potrebbe essere tale la realizzazione di un piccolo soppalco nello sgabuzzino per poter riporre meglio le valigie o la creazione di una piccola struttura amovibile in plexiglas sul balcone per riporre scope e prodotti di pulizia.

Salvo diversa previsione del contratto, la legge consente al padrone di casa di eseguire solo quelle innovazioni che non diminuiscano in misura apprezzabile la possibilità di godere del bene da parte del conduttore.

Le modifiche che comportano miglioramenti

Avviene spesso che il padrone di casa consegni l’appartamento in condizioni piuttosto semplici, privo a volte di quegli accorgimenti che rendono l’abitazione sicura e accogliente. Si pensi a una porta d’ingresso non blindata o alle finestre senza sistemi isolanti. I miglioramenti sono dunque tutte quelle opere che aumentano la qualità o il valore economico dell’immobile. In questi casi, come si deve muovere l’inquilino? È libero ad esempio di creare dei doppi infissi? E alla fine del contratto, può chiedere il rimborso dei soldi spesi?

In generale l’affittuario può apportare miglioramenti all’appartamento, purché non muti la destinazione d’uso dell’immobile.

Quanto ai soldi spesi, l’inquilino ha diritto a una indennità per i miglioramenti apportati all’appartamento salvo che il contratto preveda diversamente [3].

Anche in questo caso, per tagliare la testa al toro ed evitare futuri equivoci o contestazioni, l’inquilino potrà – anche se non è tenuto a farlo – chiedere il previo consenso al padrone di casa, in modo da accordarsi sul tipo di intervento da eseguire, sulla spesa da sostenere e sulla qualità del materiale da scegliere.

Se il locatore acconsente o approva espressamente i miglioramenti (preventivamente o successivamente, mediante ratifica della loro esecuzione), deve pagare al conduttore un’indennità pari alla minor somma tra l’importo della spesa e il valore della cosa al tempo della riconsegna. Inoltre non può imporgli di rimuovere le migliorie alla fine del contratto.

L’approvazione, come detto, deve essere esplicita e non si può presumere dal semplice fatto che, pur sapendo delle modifiche, il padrone di casa non abbia detto nulla a riguardo.

Il conduttore può richiedere tale indennità al momento della riconsegna dell’appartamento, poiché solo in tale occasione è possibile effettuare un’utile comparazione tra l’importo delle spese sostenute e l’incremento di valore conseguito dalla cosa locata [4].

Le modifiche che comportano addizioni

L’affittuario può eseguire addizioni nell’appartamento purché non ne muti la destinazione d’uso. Le addizioni sono tutte quelle opere che, pur unite o incorporate al bene, non si fondono con esso, conservando la loro autonomia ed individualità: si pensi al caso di un condizionatore esterno, un sistema di videosorveglianza o un allarme.

Se le addizioni sono facilmente separabili (ad esempio le tende da sole), alla scadenza dell’affitto il padrone di casa può decidere di trattenerle pagando al conduttore un’indennità pari alla minor somma tra l’importo della spesa e il valore delle addizioni al tempo della riconsegna. Se il padrone di casa non esercita tale diritto, l’inquilino può rimuovere tali addizioni alla fine della locazione, sempre che ciò non arrechi danno all’appartamento, oppure può lasciarle all’interno dello stesso.

Se invece le addizioni non sono separabili dall’immobile senza che questo ne subisca un pregiudizio (ad esempio il condizionatore) il padrone di casa ne diventa proprietario. In tal caso è dovuto un indennizzo all’affittuario solo a condizione che l’addizione abbia determinato un evidente miglioramento dell’appartamento.

note

[1] Cass. sent. n. 11345/2010, n. 3343/2001.

[2] Cass. sent. n. 3441/2002.

[3] Cass. sent. n. 6158/1998.

[4] Cass. sent. n. 11551/1998.

Autore immagine: 123rf com

domenica 7 maggio 2017

Beneficio prima casa nel luogo del lavoro o della residenza

 

Beneficio prima casa nel luogo del lavoro o della residenza

 

Possibile rettificare la dichiarazione fornita dal notaio e, con un atto integrativo, dichiarare di voler trasferire la residenza nei 18 mesi oppure che nel luogo ove si trova l’immobile è anche situato il proprio lavoro.

Se hai letto la nostra guida sull’agevolazione fiscale sulla prima casa saprai che il bonus spetta solo a condizione che l’immobile che il contribuente intende acquistare si trovi nel comune ove questi ha (o fisserà nei 18 mesi successivi) la propria residenza oppure, in alternativa, dove svolge la propria attività di lavoro o di studio. Immaginiamo allora che l’acquirente, al momento del rogito innanzi al notaio, dichiari che la casa che sta acquistando con l’agevolazione fiscale sulla prima casa si trova nel luogo di lavoro. Che succede se ciò non è vero e, quindi, non viene rispettato il requisito dichiarativo di svolgere l’attività lavorativa nel Comune di ubicazione dell’immobile? In tale ipotesi non si perde il «bonus prima casa» se il contribuente si impegna, comunque, a trasferire nei successivi 18 mesi, la residenza nello stesso Comune. Infatti, in questo modo, è rispettato almeno il secondo (e alternativo) requisito. È quanto chiarito dall’Agenzia delle Entrate con una recente risoluzione [1].

Via libera, quindi, alla possibilità di rettificare la dichiarazione fornita davanti al notaio al momento del rogito, con cui l’acquirente, per usufruire dell’agevolazione fiscale sulla prima casa, ha affermato che l’abitazione oggetto di acquisto si trova nel Comune dove svolge la propria attività lavorativa. Quando tale requisito non può più essere rispettato, detta dichiarazione può essere modificata anche in seguito e con un atto successivo, affermando che la casa è ubicata nel Comune in cui l’acquirente intende trasferire la propria residenza entro 18 mesi dalla data del rogito.

Come noto, tra le condizioni per ottenere il cosiddetto «bonus prima casa» vi è quello attinente all’ubicazione della casa. In particolare, il beneficio fiscale può essere richiesto da chi:

  • già risiede nel Comune ove è collocata l’abitazione oggetto di acquisto agevolato;
  • si impegna ad andare a risiedere entro 18 mesi in tale Comune;
  • lavora o studia nel Comune.

Se la dichiarazione fatta dall’acquirente non corrisponde al vero o se nei 18 mesi non si trasferisce la residenza (salvo la forza maggiore per causa non imputabile al contribuente) l’Agenzia delle Entrate intima al proprietario:

  • il pagamento della somma risparmiata per aver ottenuto indebitamente l’agevolazione fiscale, ossia alternativamente: 1) se si compra dal costruttore, l’Iva non più al 4% ma al 10% o al 22%, a seconda del tipo dell’immobile; 2) se si compra da privato, l’imposta di registro al 9% anziché al 2%;
  • il pagamento degli interessi di mora;
  • il pagamento di una sanzione pari al 30% di detto maggior importo.

Non è infrequente il caso di chi, effettuata una di tali dichiarazioni, si trovi poi nelle condizioni di beneficiare dell’agevolazione «prima casa» per ragioni diverse da quella dichiara nel contratto di acquisto. Il fisco, in questi casi, è benevolo, e consente cambiamenti di rotta.

Due sono quindi le ipotesi che si possono verificare:

  • il contribuente dichiara al notaio che, nel luogo ove si trova la casa “beneficiata” è collocato anche il proprio posto di lavoro, ma non è vero: in tal caso l’acquirente può ugualmente mantenere l’agevolazione prima casa, a patto di impegnarsi a trasferire, entro 18 mesi dall’acquisto, la residenza nello stesso Comune dell’immobile. Ciò naturalmente a condizione che i 18 mesi non siano ancora trascorsi. È, quindi, sufficiente tornare dal notaio, registrando la dichiarazione di impegno nello stesso ufficio nel quale è avvenuta la registrazione dell’atto di acquisto;
  • il contribuente dichiara al notaio che, nel luogo ove si trova la casa “beneficiata” trasferirà, nei 18 mesi successivi, la propria residenza, ma poi – per le ragioni più svariate – non intende o non può più farlo: in tal caso l’acquirente può ugualmente beneficiare dell’agevolazione fiscale sulla prima casa – senza rischi di sanzioni – qualora, dopo aver dichiarato nel rogito l’intenzione di trasferire la propria residenza entro 18 mesi, mediante un atto integrativo del rogito attesti che, alla data del rogito, egli in effetti svolgeva la propria attività lavorativa nel Comune ove è ubicata la casa di acquisto agevolato.

RISOLUZIONE N. 53/E

Direzione Centrale Normativa

OGGETTO: Interpello Art. 11, legge 27 luglio 2000, n. 212.

(Agevolazioni prima casa – requisiti per accedere alle agevolazioni – articolo 1, tariffa, parte prima, allegata al TUR, nota II-bis )

Con l’interpello specificato in oggetto, concernente l’interpretazione della nota II bis all’articolo 1 della tariffa, parte prima, allegata al TUR, è stato esposto il seguente

QUESITO

L’interpellante… fa presente di avere acquistato, in data 29 gennaio 2016, un’abitazione ubicata nel Comune di…, chiedendo le agevolazioni ‘prima casa’.

A tal fine, ha dichiarato, nell’atto di acquisto dell’immobile, di “svolgere la sua attività prevalente nel Comune ove è indicato l’immobile in oggetto”.

Nella medesima data del 29 gennaio 2016, comunicava al proprio ordine professionale (Ordine degli Avvocati di…) l’apertura di uno studio professionale in….

Tuttavia, le aspettative lavorative nel Comune di… venivano disattese stante la revoca di un incarico di consulenza continuativa che gli era stato conferito e,

Roma 27 aprile 2017 pertanto, in data 1° dicembre 2016, il professionista istante comunicava al proprio Ordine degli Avvocati di… la chiusura dello studio di….

Nella comunicazione prodotta all’Ordine professionale, il contribuente istante dichiarava che lo studio in… “non è mai stato utilizzato in quanto le previsioni professionali sul territorio non si sono realizzate”.

L’interpellante chiede, quindi, di conoscere se possa conservare i benefici fiscali ‘prima casa’ fruiti per l’acquisto dell’immobile in…, provvedendo ad integrare la dichiarazione resa nell’originario atto di acquisto ed impegnandosi a fissare la propria residenza nel Comune di….

SOLUZIONE INTERPRETATIVA PROSPETTATA DAL CONTRIBUENTE

L’interpellante intende integrare la propria dichiarazione, nella medesima forma pubblicistica in cui è stato redatto l’atto di acquisto, impegnandosi a variare la propria residenza dal Comune di… al Comune di…, entro 18 mesi dall’acquisto dell’immobile.

A parere dell’interpellante, tenuto conto che non sono ancora decorsi i 18 mesi previsti al fine del trasferimento della residenza nel Comune di… (termine che scade nel luglio 2017), qualora venga integrato l’atto di acquisto, il contribuente istante potrà mantenere i benefici fiscali ‘prima casa’ ottenuti in sede di acquisto dell’immobile sito in….

PARERE DELL’AGENZIA DELLE ENTRATE

Le agevolazioni per l’acquisto della ‘prima casa’ (applicazione dell’imposta di registro nella misura del 2% e delle imposte ipotecaria e catastale nella misura fissa di 50 euro ciascuna) spettano all’acquirente qualora ricorrano le condizioni stabilite dalla Nota II bis all’articolo 1 della tariffa, parte prima, allegata al testo unico dell’imposta di registro, approvato con il DPR 26 aprile 1986, n. 131 (TUR).

In particolare, ai sensi della lettera a) della citata Nota II bis, le agevolazioni ‘prima casa’ spettano a condizione, tra l’altro, “che l’immobile sia ubicato nel territorio del comune in cui l’acquirente ha o stabilisca entro 18 mesi dall’acquisto la propria residenza, o, se diverso, in quello in cui l’acquirente svolge la propria attività (…). La dichiarazione di voler stabilire la residenza nel comune ove è ubicato l’immobile acquistato deve essere resa, a pena di decadenza, dall’acquirente nell’atto di acquisto; (…) ”.

Tra le condizioni prescritte per beneficiare delle agevolazioni ‘prima casa’, il legislatore ha previsto, quindi, che l’acquirente risieda nel Comune in cui è sito l’immobile o si impegni a trasferirvi la residenza entro i successivi 18 mesi dall’acquisto, ovvero che svolga la propria attività nel predetto comune. Si tratta di condizioni alternative tra loro e il contribuente potrà in sede di acquisto, dichiarare di voler trasferire la residenza nel Comune in cui è sito l’immobile ovvero di esercitarvi la propria attività in considerazione delle proprie scelte personali e della propria situazione lavorativa.

Nella fattispecie rappresentata, l’interpellante, pur avendo dichiarato in sede di acquisto della casa di abitazione nel Comune di…, di svolgere in detto Comune, la propria attività prevalente, ha visto disattese le proprie aspettative lavorative, stante, in particolare, la revoca di una consulenza continuativa che gli era stata attribuita e, pertanto, dichiarava con comunicazione inoltrata all’Ordine degli Avvocati di…, che lo studio legale aperto in… il 29 gennaio 2016, “non è mai stato utilizzato”.

A parere della scrivente, tale circostanza esclude che possa ritenersi assolto il requisito, dichiarato dalla parte acquirente in atto, dello svolgimento dell’attività lavorativa nel comune di ubicazione dell’immobile.

Tenuto conto, tuttavia, che la citata lettera a) della Nota II bis consente, come detto, in via alternativa, di beneficiare delle agevolazioni ‘prima casa’ anche nel caso in cui l’acquirente si impegni a trasferire la residenza nel Comune nel termine di 18 mesi dall’acquisto, si ritiene che nel caso rappresentato, in cui detto termine di 18 mesi risulta ancora pendente, il contribuente possa dichiarare di voler beneficiare delle agevolazioni ‘prima casa’ assumendo l’impegno a trasferire la propria residenza nel Comune in cui è sito l’immobile acquistato nel termine di 18 mesi dall’acquisto agevolato.

Si precisa che la rettifica può essere effettuata dal contribuente anche in data successiva alla registrazione dell’atto di acquisto a condizione, tuttavia, che non venga arrecato pregiudizio all’attività di controllo svolta dall’ufficio.

Detta rettifica potrà essere, dunque effettuata dal contribuente semprechè l’ufficio dell’Agenzia delle entrate competente non abbia già disconosciuto, con apposito avviso di liquidazione, le agevolazioni ‘prima casa’ rilevando la mancanza del presupposto dello svolgimento dell’attività lavorativa nel Comune in cui è sito l’immobile acquistato.

******

Tale atto, redatto secondo le medesime formalità giuridiche dell’atto originario, deve essere prodotto per la registrazione presso l’ufficio in cui è stato registrato l’originario atto di acquisto.

Le Direzioni regionali vigileranno affinché i principi enunciati e le istruzioni fornite con la presente risoluzione vengano puntualmente osservati dalle Direzioni provinciali e dagli Uffici dipendenti.

IL DIRETTORE CENTRALE Annibale Dodero (firmato digitalmente)

note

[1] Ag. Entrate risoluzione n. 53/E del 27.04.2017.

Dichiarazione dei redditi, credito d'imposta per i canoni di locazione non percepiti

 

Il proprietario di casa che ha versato imposte sui canoni di locazione ad uso abitativo, dopo la sentenza di convalida del procedimento di sfratto per morosità, puo' far richiesta di un credito d'imposta di pari ammontare.

Come determinare il credito d'imposta spettante

Per determinare il credito d’imposta spettante è necessario riliquidare la dichiarazione dei redditi di ciascuno degli anni per i quali, in base all’accertamento avvenuto nell’ambito del procedimento giurisdizionale di convalida di sfratto per morosità, sono state pagate maggiori imposte rispetto a quelle dovute in quanto commisurate ai canoni di locazione non riscossi, anziché alla rendita.

Nell’effettuare le operazioni di riliquidazione si deve tener conto di eventuali rettifiche ed accertamenti operati dagli uffici. Resta fermo che l’eventuale successiva riscossione (totale o parziale) dei canoni di locazione per i quali si è usufruito del credito d’imposta comporterà per il contribuente l’obbligo di dichiarare il maggior imponibile determinato tra i redditi soggetti a tassazione separata, salvo opzione per quella ordinaria.

Limite dei 10 anni di prescrizione

Per quanto riguarda i periodi d’imposta utili cui fare riferimento per la determinazione e richiesta del credito d’imposta, vale il termine di prescrizione ordinaria di dieci anni. Pertanto, si può effettuare il calcolo con riferimento alle dichiarazioni dei redditi presentate negli anni precedenti, ma non oltre quelle relative ai redditi 2007, sempreché, ovviamente, per ciascuna delle annualità risulti accertata la morosità del conduttore nell’ambito del procedimento di convalida dello sfratto.

Ape non conforme alle prestazioni energetiche dell'immobile? Per la Cassazione è una truffa

 

Gtres Gtres

Vendere un immobile con prestazioni energetiche non conformi a quelle dichiarate nell'attestato di prestazione energetica (A.P.E.) costituisce una truffa contrattuale. Ad affermarlo la seconda sezione penale della Corte di Cassazione

Con la Sentenza Penale n. 16444 del 10 marzo 2017) la Suprema Corte di Cassazione ha annullato una precedente sentenza della Corte di Appello del Comune di Milano che aveva assolto un costruttore accusato di truffa contrattuale per aver vendito un immobile le cui prestazioni energetiche non erano conformi a quanto dichiarato nell'Ape (attestato di prestazione energetica). Il tribunale di Milano aveva assolto il costruttore dichiarando la sua buona fede perché aveva confidato nelle valutazioni dei tecnici.

Il ricorso davanti ai giudici della Cassazione era stato allora interposto sulla base di due vizi:

  • di motivazione: perché il costruttore non poteva essere in buona fede in quanto aveva realizzato lavori in economia, utilizzando materiali di qualità inferiore a quella dichiarata, di aver installato serramenti ed impianto di riscaldamento non conformi e di non aver rifatto il tetto.
  • di legge: perché almeno si sarebbe dovuto riconoscere un dolo eventuale in quanto la difformità delle opere rispetto al progetto avrebbero potuto presumibilmente avere delle conseguenze sulla classificazione energetica dell'immobile.

I giudici della Corte di Cassazione hanno quindi riconosciuto la responsabilità del costruttore perché la difformità tra i lavori eseguiti e quelli progettati e la conseguente vendita con una classe energetica effettiva non corrispondente a quella dichiarata non poteva sfuggire al costruttore.  La sentenza è stata quindi annullata a rinviata al tribunale di appello.

Pignoramento immobiliare della seconda casa più facile con la "manovrina"

 

Notizie immobiliari|team

arrowdown2

Gtres 

Nella manovrina voluta da Bruxelles per ridurre il deficit italiano c'è una norma che rende più facile i pignoramenti immobiliari per la seconda casa. Con la modifica introdotta, infatti, il Fisco potrà espropriare un immobile diverso dalla prima abitazione se il debitore possiede un patrimonio immobiliare complessivo del valore minimo di 120 mila euro. 

La normativa sui pignoramenti immobiliari prevede che il Fisco non possa pignorare la prima casa se questa è l'unico immobile di proprietà del contribuente, è un'abitazione civile e non rientra nelle categorie di casa di lusso. Per quanto riguarda le seconde case, invece, fino all'entrata in vigore del decreto legge 50/2017, il pignoramento era possibile solo il valore dell'immobile non era inferiore a 120mila euro.

Ad essere modificato ora è proprio questo tetto. L'esproprio ora è infatti possibile se tutto il patrimonio immobiliare del debitore (comprensivo della prima casa e di qualsiasi altra proprietà immobiliare) non è inferiore a tale soglia.

Di fatto quindi viene agevolato il pignoramento immobiliare perché diventa estremamente più facile raggiungere la soglia fissata della legge. Se il contribuente ha un debito con il fisco di almeno 120mila euro e il valore catastale del totale degli immobili posseduti è pari a 120 mila euro la riscossione potrà agire in maniera diretta e senza alcun limite.