giovedì 22 marzo 2018

Affitti brevi e spese per la casa da portare in detrazione: cosa cambia nel 730/2018.



Dichiarazione dei redditi 2018 e spese per casa e affitto

Tutte le spese per casa e affitti da detrarre nel 2018

Gli affitti brevi entrano nel 730/2018.

L’Agenzia delle Entrate ha pubblicato nei giorni scorsi il modello di dichiarazione dei redditi 730/2018 con le istruzioni per la compilazione, e come ogni anno non mancano le novità. Tra queste la più chiacchierata è la cosiddetta tassa Airbnb, ovvero la tassa sugli affitti brevi, introdotta dal 1 giugno 2017.

Si tratta della normativa fiscale che disciplina i redditi derivati dalla locazione di immobili ad uso abitativo di durata non superiore ai 30 giorni, con contratti stipulati da persone fisiche al di fuori dell’esercizio dell’attività d’impresa ma conclusi con l’intervento di soggetti che esercitano l’attività di intermediazione immobiliare, ivi compresi i portali online. Tali redditi trovano per la prima volta spazio nel modello del 730 per il 2018, essendo assoggettati alla cedolare secca con ritenuta del 21% versata direttamente dagli intermediari. In sede di dichiarazione è possibile optare per il regime Irpef se risulta essere più conveniente; in questo caso la cedolare versata viene trattenuta come acconto. Il reddito derivante dagli affitti brevi costituisce reddito fondiario per il proprietario dell’immobile e nel 730 va indicato nel Quadro B, relativo ai redditi degli immobili; è stato inoltre aggiornato il rigo F8 dove indicare l’importo delle ritenute subite. Differente se è un sublocatore o un comodatario a riscuotere i canoni: in questi casi i proventi dalla locazione breve costituiscono reddito diverso e vanno indicati nel quadro D al rigo D4, con il codice 10, mentre al proprietario basterà indicare la rendita catastale.

Le altre novità per la casa introdotte nel 730/2018.

Di seguito le altre novità contenute nel modello di dichiarazione 730/2018 che riguardano le spese sostenute per la casa da portare in detrazione:

- Sismabonus: quest’anno sono previste percentuali di detrazioni più ampie per le spese sostenute per gli interventi antisismici effettuati su parti comuni di condominio, l’estensione dell’agevolazione anche per le case popolari e la detrazione al 100% sulla spesa sostenuta per la diagnosi sismica. 
- Ecobonus: cambiano le detrazioni relative agli interventi per il risparmio energetico; in particolare sono ridotte al 50% le spese sostenute per finestre con infissi, schermature solari e caldaie a condensazione.
- Bonus verde 2018: è prevista una detrazione del 36% per gli interventi di sistemazione e recupero del verde di giardini, terrazzi, balconi, anche per le parti comuni degli edifici condominiali e per gli immobili di interesse storico.
- Bonus unico condomini 2018: la Legge di Bilancio ha introdotto uno sconto Irpef per i condomini che effettuano interventi di risparmio energetico insieme a interventi di adeguamento antisismico. Lo sconto varia tra l’80 e l’85% a seconda del grado di riduzione del rischio raggiunto grazie ai lavori.
- Affitti per studenti fuori sede: viene ampliata la platea degli studenti universitari fuori sede, o meglio delle famiglie di studenti nel caso siano ancora a carico dei genitori, che possono usufruire della detrazione del 19% per l’appartamento affittato per motivi di studio (scopri di più sugli affitti a studenti fuori sede).

Casa e affitti: quali spese scaricare con la dichiarazione dei redditi?

Oltre alle novità introdotte nel 730/2018, restano immutate altre voci di spesa su casa e affitti che si possono portare in detrazione in sede di dichiarazione dei redditi:

- Canoni di affitto: gli inquilini possono portare in detrazione le spese sostenute per il pagamento dei canoni di affitto dell’abitazione principale, alle seguenti condizioni:
- con contratto libero 4+4 possono detrarre una somma pari a 300 euro se il reddito complessivo non supera 15.493,71 euro, una somma pari a 150 euro per redditi imponibili compresi tra 15.493,71 e 30.987,41 euro. Occorre indicare questa spesa nel Rigo E1, Codice 1 del 730.
- con contratto a canone concordato: la detrazione è pari a 495,80 euro se il reddito complessivo non supera 15.493,71 euro, e a 247,90 euro per redditi compresi tra 15.493,71 e 30.987,41 euro. Occorre indicare questa spesa nel Rigo E1, codice 2 del 730.
- Giovani in affitto: i giovani tra i 20 e i 30 anni che vivono in affitto possono portare in detrazione le spese sostenute per i canoni di locazione a patto che la casa sia diversa dall’abitazione principale dei genitori. Lo sconto Irpef è pari a 991,60 euro se il reddito non supera i 15.493,71 euro, e vale per i primi tre anni di affitto con contratti libero 4+4, concordato 3+2 e transitorio.
- Affitti per lavoratori trasferiti: i lavoratori dipendenti che si trasferiscono per motivi di lavoro possono detrarre, per i primi 3 anni, i canoni di affitto nella misura di 991,60 euro per redditi complessivi non superiori a 15.493,71 euro e 495,80 euro per redditi tra i 15.493,71 euro e i 30.987,41 euro. Ci sono però alcuni requisiti che il lavoratore deve rispettare per poter accedere allo sconto fiscale:
- deve trasferire la propria residenza nel comune di lavoro o in un comune limitrofo;
- il comune deve distare almeno 100 km dal precedente e trovarsi fuori dalla propria regione;
- la residenza nel nuovo comune sia stata trasferita da meno di 3 anni dalla richiesta di detrazione.
- Alloggi sociali: ai titolari di contratti di affitto di alloggi sociali adibiti alla propria abitazione principale spetta una detrazione pari a 900,00 euro se il reddito complessivo non supera i 15.493,71 euro e 450,00 euro per i redditi complessivi compresi tra 15.493,71 euro e 30.987,41 euro.
- Canoni di leasing per l’abitazione principale: la Legge di Stabilità 2016 ha introdotto, fino al 31 dicembre 2020, un’agevolazione fiscale per chi opta per il contratto di leasing immobiliare. La detrazione in questo caso è pari al 19%, ma il conduttore non deve possedere un reddito superiore a 55 mila euro e non deve essere titolare di diritti di proprietà su immobili a destinazione abitativa. Il limite massimo rispetto all’importo da detrarre è di 8000 euro all’anno se alla data di stipula del contratto di leasing il contribuente aveva meno di 35 anni, mentre in caso contrario il limite scende a 4.000 euro.
- Domotica: è stato prorogato anche per il 2018 il bonus domotica pari al 65%, che agevola le spese destinate all’acquisto di abitazioni dotate di domotica e installazione di dispositivi multimediali per il controllo da remoto degli impianti di riscaldamento, produzione di acqua calda e climatizzazione delle case.
- Interessi passivi sul mutuo: lo sconto Irpef per gli interessi passivi sul mutuo dell’abitazione principale o prima casa, compresi gli oneri accessori, è pari al 19% con un massimo di 4.000 euro.
- Spese per l’intermediazione immobiliare e provvigioni: è possibile scaricare i compensi per i mediatori immobiliari nella misura del 19% con il limite di 1000 euro complessivi.
- Bonus mobili e grandi elettrodomestici: per queste spese lo sgravio Irpef ammonta al 50% con un tetto di spesa massimo di 10 mila euro. Il bonus vale però solo se le spese sono effettuate a seguito di lavori di ristrutturazione dell’immobile. Precisiamo inoltre che gli elettrodomestici per i quali è prevista l’agevolazione sono quelli in classe energetica A+ (A per i forni). Nel 2018 non è stato prorogato il bonus mobili per le giovani coppie, introdotto dalla Legge di Stabilità 2017.    

Le scadenze per presentare il 730/2018.

La scadenza per presentare il 730 quest’anno è fissata al 23 luglio, sia per chi invia il modello in autonomia come precompilata, sia per chi si avvale dell’assistenza fiscale dai Caf o da altri professionisti abilitati. 

i, i tassi sui mutui toccano il minimo storico dell’1,89%




A febbraio 2018 il tasso medio sulle nuove operazioni per l’acquisto di abitazioni ha toccato il minimo storico risultando pari a 1,89%. Lo ha reso noto l’Abi (Associazione bancaria italiana).

Come evidenziato, in base agli ultimi dati, i finanziamenti per la casa costano 1,89% (1,92% a gennaio 2018, 5,72% a fine 2007). Sul totale delle nuove erogazioni di mutui, inoltre, circa i due terzi sono mutui a tasso fisso.

Sul fronte dell’erogazione dei prestiti, nel complesso, a febbraio 2018 l’ammontare dei prestiti alla clientela erogati dalle banche operanti in Italia, 1.777,2 miliardi di euro, è superiore di quasi 70 miliardi all’ammontare complessivo della raccolta da clientela, 1.707,3 miliardi di euro. I prestiti a famiglie e imprese sono in crescita su base annua di +1,9%, proseguendo la positiva dinamica complessiva del totale dei prestiti in essere.

Sulla base degli ultimi dati ufficiali, relativi a gennaio 2018, si conferma la crescita del mercato dei mutui. L’ammontare totale dei mutui in essere delle famiglie registra una variazione positiva di +3,2% rispetto a gennaio 2017 (quando già si manifestavano segnali di miglioramento).

Le sofferenze nette (cioè al netto delle svalutazioni e accantonamenti già effettuati dalle banche con proprie risorse) a gennaio 2018 si sono attestate a 59,3 miliardi di euro; un valore in diminuzione rispetto ai 64,1 miliardi del mese precedente e in forte calo, meno 27,5 miliardi, rispetto al dato di dicembre 2016 (86,8 miliardi). In 13 mesi si sono quindi ridotte di oltre il 30%. Rispetto al livello massimo delle sofferenze nette raggiunto a novembre 2015 (88,8 miliardi), la riduzione è di quasi 30 miliardi, cioè di un terzo.

martedì 20 marzo 2018

Bonus box e posti auto 2018: come funziona


Bonus box e posti auto 2018: come funziona

Acquisto o costruzione di box auto o posti auto (anche condominiali): detrazione Irpef.

Accanto alle detrazioni fiscali Ipef previste per chi ristruttura casa, sempre nell’ambito della agevolazioni per il recupero del patrimonio edilizio, la legge concede un particolare bonus per l’acquisto o la costruzione di garage, box auto o posti auto (anche condominiali). Vediamo come funziona il bonus acquisto o costruzione di box e posti auto 2018.

Indice

Bonus box e posti auto: quando spetta

La detrazione fiscale è riconosciuta:

  • per le spese di acquisto di box e posti auto pertinenziali già realizzati (spese relative alla realizzazione)
  • per le spese di costruzione di autorimesse o posti auto, anche di proprietà comune (purché siano pertinenziali rispetto ad un’unità immobiliare abitativa).

Acquisto box auto: detrazione Irpef

In caso di acquisto del box auto, la detrazione spetta solo per le spese sostenute per la sua realizzazione e sempre che le stesse siano dimostrate da apposita attestazione rilasciata dal costruttore.

Ai fini dell’agevolazione sono richiesti i seguenti requisiti:

  • proprietà o patto di vendita di cosa futura del parcheggio realizzato o in corso di realizzazione;
  • vincolo pertinenziale con un’unità abitativa, di proprietà del contribuente; se il parcheggio è in corso di costruzione, deve esserci l’obbligo di creare un vincolo di pertinenzialità con un’abitazione;
  • documentazione dell’impresa costruttrice dalla quale si evincano i costi imputabili alla sola realizzazione dei parcheggi, che devono essere tenuti distinti dai costi accessori (questi ultimi non sono agevolabili).
Acquisto contemporaneo di casa e box auto

Nel caso di acquisti contemporanei di casa e box con unico atto notarile, la detrazione spetta solo per le spese di realizzazione del box (sempre che sia pertinenziale), il cui importo deve essere specificamente documentato.

La detrazione può essere riconosciuta anche per i pagamenti effettuati prima dell’atto notarile o, in assenza, di un preliminare d’acquisto registrato, in cui è indicato il vincolo pertinenziale. È necessario, però, che il vincolo risulti costituito e riportato nel contratto prima della presentazione della dichiarazione dei redditi nella quale il contribuente richiede la detrazione.

Assegnazione di alloggi e box auto

Per le assegnazioni di box e alloggio da parte di cooperative edilizie di abitazione, la detrazione spetta anche per gli acconti pagati con bonifico dal momento di accettazione della domanda di assegnazione da parte del Consiglio di amministrazione.

Non rileva il fatto che il rogito sia stipulato in un periodo d’imposta successivo, nè che il verbale della delibera di assegnazione che ha formalizzato il vincolo pertinenziale non sia stato ancora registrato.

Per quanto riguarda il vincolo pertinenziale tra box auto e abitazione, non importa se gli immobili non sono stati ancora realizzati, purché la destinazione funzionale del box, al servizio dell’abitazione da realizzare, risulti dal contratto preliminare di assegnazione.

Costruzione box auto: detrazione Irpef

Per usufruire della detrazione per la costruzione di nuovi posti e autorimesse, anche di proprietà comune, è necessario che gli stessi siano pertinenziali ad una unità immobiliare a uso abitativo.

La detrazione spetta solo per le spese di realizzazione del box pertinenziale, che devono essere documentate dal pagamento avvenuto mediante bonifico (anche se l’unità abitativa non è stata ancora ultimata).

Box e posti auto: come avere la detrazione fiscale

Per usufruire della detrazione il proprietario deve essere in possesso della seguente documentazione.

In caso di acquisto del box o posto auto:

  • atto di acquisto, o preliminare di vendita registrato, dal quale risulti la pertinenzialità
  • dichiarazione del costruttore, nella quale siano indicati i costi di costruzione
  • bonifico bancario o postale per i pagamenti effettuati.

In caso di costruzione box o posto auto:

  • concessione edilizia da cui risulti il vincolo di pertinenzialità con l’abitazione
  • bonifico bancario o postale per i pagamenti effettuati.

Il bonifico deve essere effettuato dal beneficiario della detrazione (proprietario o titolare del diritto reale dell’unità immobiliare sulla quale è stato costituito il vincolo pertinenziale con il box auto).

La detrazione spetta anche al familiare convivente che abbia effettivamente sostenuto la spesa, a condizione che nella fattura sia annotata la relativa percentuale di spesa. La stessa cosa vale anche per il convivente more uxorio.

Nel caso siano stati versati acconti, la detrazione spetta con riguardo ai pagamenti effettuati con bonifico nel corso dell’anno, e fino a concorrenza del costo di costruzione dichiarato dall’impresa, a condizione che:

  • il compromesso di vendita sia stato regolarmente registrato entro la data di presentazione della dichiarazione in cui si fa valere la detrazione
  • dal compromesso risulti la sussistenza del vincolo di pertinenzialità tra abitazione e box.

Il vincolo pertinenziale non si considera esistente nell’ipotesi particolare in cui il bonifico sia effettuato nello stesso giorno in cui si stipula l’atto, ma in un orario antecedente a quello della stipula stessa.

Se il pagamento non è stato effettuato mediante bonifico, si può comunque usufruire della detrazione a condizione che:

  • nell’atto notarile siano indicate le somme ricevute dall’impresa che ha venduto il box pertinenziale;
  • il contribuente ottenga dal venditore, oltre alla certificazione sul costo di realizzo del box, una dichiarazione sostitutiva di atto notorio in cui attesti che i corrispettivi accreditati a suo favore sono stati inclusi nella contabilità dell’impresa.

Chiudere il balcone in veranda: che se i vicini non vogliono?


Chiudere il balcone in veranda: che se i vicini non vogliono?


Il Comune non può subordinare il rilascio del permesso di costruire all’ottenimento del consenso dell’assemblea di condominio e al deposito del relativo verbale.

In un condominio, la chiusura di un balcone in veranda genera spesso contrasti e liti. Un po’ per l’estetica della facciata che, comunque, viene intaccata dalla nuova struttura; un po’ per il pericolo che la stessa può arrecare alla stabilità dell’edificio se realizzata non a regola d’arte; un (bel) po’ perché, nei palazzi, ogni scusa è buona per litigare. Così si finisce spesso per mettere i bastoni tra le ruote al vicino che vuol chiudere il proprio terrazzo per creare un piccolo ripostiglio o un lavatoio. Può sembrare un ostacolo insormontabile: se è vero che il terrazzo è un prolungamento dell’appartamento e che lo stesso è proprietà individuale è anche vero che ciascuno può farci ciò che vuole. Tuttavia, quando si va in Comune per ottenere la licenza edilizia (o meglio, il permesso di costruire) spesso, oltre agli elaborati tecnici viene richiesto, come condizione per l’autorizzazione, il nulla osta dell’assemblea di condominio. E lì ci si trova dinanzi all’ostacolo che può sembrare insormontabile. Che fare, allora se i vicini non vogliono farti chiudere il balcone in veranda e, senza il loro consenso, il Comune non ti dà il permesso? La risposta è stata espressa più volte dalla giurisprudenza amministrativa e da ultimo dal Tar Campania [1]. Vediamo qual è la soluzione (in verità molto semplice) a questo problema.

Per prima cosa mi sento di tranquillizzarti subito: come scoprirai meglio leggendo questo articolo, né il Comune, né il condominio possono impedirti di costruire la veranda sul terrazzo se uno o più condòmini del tuo edificio si oppongono. Nel primo caso, infatti, l’ente locale è chiamato a verificare solo la regolarità urbanistica della costruzione e non già il rispetto delle regole del “buon vicinato”; nel secondo caso, non spetta all’assemblea dirti cosa puoi fare in casa tua (e il balcone ne è una parte). Cerchiamo di capire meglio ciò di cui stiamo parlando e, per prima cosa, vediamo cosa bisogna fare per costruire una veranda.

Indice

Presupposti per costruire una veranda sul balcone

Se hai già letto la nostra guida Trasformazione del balcone in veranda in condominio, conoscerai già tutti i passaggi per procedere a chiudere il terrazzo del tuo appartamento e realizzarci uno sgabuzzino, una piccola cucina o un lavatoio o anche un piccolo salotto. Ricordiamo qui di seguito i punti principali da rispettare.

Rispetto della normativa privatistica

Da un punto di vista del diritto privato, il codice civile ti consente di fare ciò che desideri della tua proprietà ciò, ivi compreso realizzare una veranda sul balcone. Ma devi rispettare due condizioni:

  • la costruzione non deve costituire un pregiudizio o un pericolo per la stabilità dell’edificio;
  • la costruzione non deve deturpare l’estetica dell’edificio (il codice impone di non rovinare il «decoro architettonico» della facciata condominiale).

Il rispetto di queste due condizioni non richiede il preventivo assenso dell’assemblea o dell’amministratore, ben potendo il padrone di casa avviare i lavori senza informare gli altri condomini. Tuttavia questi ultimi possono agire, anche a lavori ultimati, se ritengono che uno o entrambi i presupposti appena indicati non siano stati rispettati. In tal caso, potranno ricorrere al giudice e chiedere la demolizione dell’opera. Questo pone il proprietario in una condizione di incertezza perché potrebbe subire le contestazioni solo dopo aver sostenuto la spesa (peraltro ingente). Per evitare questo rischio, egli può presentare il progetto in assemblea e farselo approvare; se c’è il consenso della maggioranza, potrà procedere alla realizzazione dell’opera e, se questa rispetta i disegni, nessun condomino potrà più opporsi e chiederne la rimozione. Invece se agisce senza permessi, pur potendolo ben fare, sopporterà il rischio di una eventuale causa. Per vincere il giudizio dovrà dimostrare che l’opera non crea pericolo alla stabilità dell’edificio e non ne rovina l’estetica.

Rispetto della normativa urbanistica

Da un punto di vista amministrativo, la realizzazione della veranda richiede l’autorizzazione del Comune, ossia il rilascio del cosiddetto permesso di costruire. In caso contrario si commette il reato di abuso edilizio. In mancanza del permesso di costruire può sempre essere chiesto, in un momento successivo, il permesso in sanatoria.

Se l’opera non è stata autorizzata potrà subire l’ordine di demolizione in qualsiasi momento: non ci sono termini di scadenza o di prescrizione perché le autorità ordinino lo smantellamento della veranda abusiva.

Il Comune non può richiedere l’autorizzazione dell’assemblea

Veniamo al punto che più ci interessa: se il Comune dovesse chiedere, come condizione per ottenere il permesso di costruire, il consenso dell’assemblea di condominio e questa invece non volesse darla, che si può fare? Ecco cosa hanno detto in proposito i giudici.

L’ufficio tecnico del Comune non può intromettersi negli “affari privati” dei condomini e chiedere che questi diano il consenso alla veranda. Non si può quindi subordinare il rilascio della licenza all’esibizione della delibera condominiale di approvazione dei lavori. E ciò per due semplici ragioni. La prima: l’amministrazione deve limitarsi a verificare solo il rispetto della normativa urbanistica e non di quella privatistica. La seconda: da nessuna parte la legge prevede che la realizzazione della veranda è subordinata al consenso dell’assemblea (come detto, infatti, il proprietario può agire in autonomia, senza neanche informare gli altri condomini o l’amministratore, trattandosi di uno spazio di sua proprietà).

Dunque, se il Comune dovesse frapporre il rilascio del permesso di costruire alla mancata esibizione del nulla osta dell’assemblea di condominio si può far ricorso al Tar e impugnare il diniego.

note

[1] Tar Campania, sent. n. 1593/18.

Caldaia nella casa in affitto: che fare se non funziona?


Caldaia non funzionante nella casa in affitto: che fare?

La caldaia guasta può determinare il risarcimento del danno morale, ma bisogna dimostrare il grave danno. Non si può compensare con il canone la spesa anticipata per la riparazione.

Il riscaldamento è un bene primario, necessario alla sopravvivenza dell’uomo. E se anche ci sono sempre fonti alternative ai classici termosifoni (un esempio è certamente la stufa elettrica) è indubbio che una casa fredda non può essere abitata, specie nella stagione invernale. Ciò vale a maggior ragione per l’acqua calda senza la quale è impossibile provvedere non solo alla pulizia del proprio corpo, alla doccia e al lavaggio dei panni, ma anche alle faccende domestiche (si pensi all’acqua calda necessaria per il lavaggio dei pavimenti). Che fare allora se, nella casa in affitto, c’è una caldaia non funzionante? Nell’ambito di una locazione, i contrasti tra inquilino e proprietario di casa vedono molto spesso la caldaia al centro di numerose polemiche: chi deve sostenere le spese per la manutenzione? E chi invece quelle per le sostituzione o la revisione? Una recente ordinanza della Cassazione [1] ci offre lo spunto per riprendere l’argomento e ricordare come si regolano i rapporti tra le parti.

Indice

Chi deve pagare per la caldaia non funzionante?

Come abbiamo già spiegato nell’articolo Affitto e caldaia: spese di manutenzione, rottura e revisione, la riparazione della caldaia guasta è una spesa che compete al padrone di casa, a meno che il guasto non sia dipeso da un cattivo uso dell’inquilino o dal fatto che questi, pur sapendo che l’impianto necessitava di controllo e revisione, non vi ha provveduto per tempo o non ha avvisato il proprietario.

Chi deve provvedere al controllo periodico e alla manutenzione della caldaia?

Differenti, invece, sono le regole per il controllo periodico e la manutenzione ordinaria della caldaia: la revisione – obbligatoria per legge – spetta all’inquilino. Su di lui competono anche le spese per le piccole riparazioni, quelle che dipendono dall’uso quotidiano (si pensi alla pulizia dei filtri e al controllo dei fumi). Sono a carico dell’affittuario anche le spese per la sostituzione della caldaia o di singole parti di essa quando ciò deriva dalla vetustà dell’apparecchio o da caso fortuito (si pensi un fulmine o un corto circuito). Lo stesso dicasi per gli interventi di adeguamento a legge, anch’essi a carico del locatore.

Cosa può stabilire il contratto di affitto per quanto riguarda la caldaia?

Bisogna sempre prestare attenzione a ciò che dice il contratto di affitto: le parti possono infatti derogare ai principi appena detti e stabilire, ad esempio, che determinate spese competano al locatore ed altre all’inquilino o viceversa.

Di solito, però, si usa stabilire un “copione” ormai collaudato e prevedere che siano:

a carico del proprietario le spese per:

  • installazione della caldaia
  • sostituzione della caldaia
  • adeguamento della caldaia alle norme di legge
  • manutenzione straordinaria della caldaia.

a carico dell’inquilino le spese per:

  • manutenzione ordinaria e controllo fumi
  • pulizia della caldaia per accessione e messa a riposo
  • pagamento tasse
  • aggiornamento libretto e controllo periodico
  • pagamento operaio per il controllo
  • spese per la fornitura del calore.

Che fare se la caldaia è guasta

Come abbiamo detto, quando la caldaia è guasta e la rottura non dipende da un difetto di ordinaria amministrazione spettante all’inquilino, la riparazione compete al padrone di casa. Il conduttore ha l’onere di avvisare il locatore affinché vi provveda immediatamente; tuttavia, nel caso in cui quest’ultimo rimanga inerte, il conduttore ha facoltà di provvedere personalmente a dette riparazioni anticipandone i costi, salvo poi esigere il rimborso ed il risarcimento danni al locatore. Se il locatore non paga le spese anticipate dall’inquilino, quest’ultimo non può compensarle con il canone di locazione: non può ciò smettere di versare l’importo mensile da lui dovuto per l’affitto fino a quando non si è rifatto dei costi sostenuti in quanto i due obblighi di pagamento viaggiano su binari differenti e paralleli. Pertanto in assenza di rimborso, all’affittuario non resta che procedere con un decreto ingiuntivo da richiedere al tribunale. Per chiedere il decreto ingiuntivo dovrà però esibire copia della fattura rilasciata dal tecnico. Chi ha pagato in contanti e non si è fatto rilasciare il documento fiscale difficilmente potrà dimostrare il proprio diritto di credito.

Posso smettere di pagare l’affitto se la caldaia non funziona?

Il principale obbligo che il locatore si assume con la stipula del contratto di affitto è quello di far in modo che il conduttore possa godere a pieno della nuova obbligazione. È quindi indubbia la sua inadempienza nel caso in cui l’appartamento presenti una caldaia rotta. Il punto è però stabilire cosa possa fare e chiedere l’inquilino pregiudicato dall’impossibilità di avere i riscaldamenti e/o l’acqua calda.

Una ricorrente forma di autotutela di chi non può godere della caldaia funzionante è costituita dalla interruzione del pagamento dell’affitto o in un’autoriduzione dello stesso in attesa della sostituzione o dell’intervento di manutenzione. A riguardo però la giurisprudenza ha sempre detto che la possibilità di sospendere il versamento dei canoni o lo “sconto” sugli stessi è consentito solo laddove l’immobile non sia completamente utilizzabile (è il caso del conduttore costretto ad andare via di casa); invece per quei vizi che ne predicano solo il pieno godimento è necessario intentare prima una causa in tribunale affinché sia il giudice a determinare la misura del risarcimento e a compensarla eventualmente con l’obbligo del pagamento del canone.

Ora, a nostro avviso, un immobile senza riscaldamenti e con l’acqua fredda diventa completamente inservibile, specie per chi ha bambini piccoli, non potendo provvedere alla pulizia del corpo e dell’ambiente domestico. Pertanto si potrebbe giustificare la sospensione nel pagamento del canone. Bisognerà però dimostrare di non aver potuto fruire il bene (cosa però contraddetta dal fatto se il conduttore continua a rimanere nell’immobile) [2].

Posso disdire l’affitto se la caldaia non funziona?

In alternativa l’inquilino potrebbe anche recedere in anticipo dal contratto di affitto per giusta causa, anche se questo non è ancora scaduto. La giurisprudenza ha ritenuto sussistente, ad esempio, il diritto dell’inquilino di lasciare l’appartamento insalubre per via dell’umidità, degli spifferi di vento e freddo, della scarsità di acqua che scende dai rubinetti o dell’assenza ciclica di riscaldamento.

Il conduttore inoltre può chiedere il risarcimento dei danni morali derivati dai vizi dell’appartamento dovuti alla colpa o al dolo del locatore, a meno che questi fornisca la prova di avere ignorato senza colpa l’esistenza dei vizi al momento della consegna. Quindi, sempre che il padrone di casa sia stato informato del cattivo funzionamento della caldaia, questi potrebbe dover risarcire i danni sofferti dall’inquilino costretto a vivere nel freddo.

note

[1] Cass. ord. n. 6395/2018.

[2] Trib. Bari, sent. n. 2734/2015: «Secondo il principio inadimplenti non est adimplendum, la sospensione della controprestazione è legittima solo se conforme a lealtà e buona fede, il che è da escludere se il conduttore continui a godere dell’immobile, e al momento in cui gli è chiesto il pagamento del canone, assuma l’inutilizzabilità del bene all’uso convenuto, in quanto in tal modo fa venire meno la proporzionalità tra le rispettive prestazioni. Nella specie, l’eccipiente non solo non ha fornito la prova della assoluta impossibilita di utilizzare l’immobile in conseguenza del dedotto mancato funzionamento del riscaldamento, ma, in base alle sue stesse allegazioni, dovrebbe persino affermarsi il contrario, e cioè che il bene non abbia mai smesso di essere fruibile, avendo la conduttrice continuato ad abitarlo sino al giorno del rilascio.

Con riferimento all’inadempimento del conduttore al pagamento del canone, l’art. 5 L. 392/1978, stabilendo che il mancato pagamento del canone della locazione, decorsi venti giorni dalla scadenza prevista, costituisce motivo di risoluzione ai sensi dell’art. 1455 c.c., fissa un criterio di predeterminazione legale della gravità dell’inadempimento, che, come tale, non consente al giudice del merito di svolgere altri accertamenti su questo presupposto dell’inadempimento.

E’ infondata l’eccezione di non dover corrispondere l’adeguamento ISTAT in mancanza di richiesta scritta, in quanto il contratto di locazione prevedeva espressamente il diritto all’aggiornamento del canone, “senza obbligo di ulteriore richiesta scritta da parte del locatore”». Cfr. Cass. sent. n. 5682/2001: «Nei contratti con prestazioni corrispettive, qualora una delle parti adduca, a giustificazione della propria inadempienza, l’inadempimento o la mancata offerta di adempimento dell’altra, il giudice deve procedere alla valutazione comparativa dei comportamenti, tenendo conto non solo dell’elemento cronologico, ma anche e soprattutto dei rapporti di causalità e proporzionalità esistenti tra le prestazioni inadempiute e della incidenza di queste sulla funzione economico – sociale del contratto. (Nella specie, alla stregua del suindicato principio, la S.C. ha confermato la decisione della corte di merito che aveva ritenuto legittima la sospensione del pagamento del canone da parte della conduttrice di immobile adibito ad esposizione commerciale, a fronte dell’inadempimento del locatore all’obbligo di provvedere alla manutenzione dell’immobile stesso, danneggiato da infiltrazioni di acqua causate dalla rottura del vaso di espansione dell’impianto di riscaldamento, le quali avevano determinato la completa inutilizzabilità dell’immobile locato)».

lunedì 19 marzo 2018

Cedolare secca: come funziona e quando si paga



Cos’è la cedolare secca e quali sono gli immobili a cui si può applicare: si tratta di una imposta fissa che non fa cumulo con gli altri redditi del locatore e quindi non comporta lo scatto dello scaglione Irpef.

Hai intenzione di dare in affitto la tua casa, ma non vuoi pagare troppe tasse sui canoni di locazione che l’inquilino ti corrisponderà. Hai sentito dire che esiste un sistema per versare un’imposta fissa e ridotta rispetto a quella ordinaria: si tratta della cedolare secca. Se vuoi sapere come funziona e quando si paga, ecco qualche suggerimento pratico che fa al caso tuo.

Cos’è la cedolare secca?

Per pagare meno tasse sulla casa data in affitto a un inquilino, il locatore può optare per il regime della cosiddetta cedolare secca: si tratta di una scelta che consente di versare un’imposta  sostitutiva dell’Irpef e delle addizionali. In più, per i contratti sotto cedolare secca non si deve pagare l’imposta di registro e l’imposta di bollo né al momento della registrazione del contratto, né alla risoluzione o in caso di proroga. La cedolare secca non sostituisce l’imposta di registro per la cessione del contratto di locazione.

Che differenza c’è tra la cedolare secca e il regime ordinario?

Per chi opta per la tassazione della locazione con regime ordinario, i canoni percepiti andranno a fare cumulo nella dichiarazione dei redditi del proprietario e quindi scontando un imposta Irpef basata sullo scaglione del contribuente. In pratica, il reddito derivante dalla locazione si va a sommare a quello di lavoro e potrebbero far scattare uno scaglione superiore delle tasse da versare con la dichiarazione dei redditi. Questo calcolo andrà eseguito da un commercialista per verificare la convenienza della cedolare secca.

Invece, con la cedolare secca si subisce solo una trattenuta a monte, che permette di pagare un’imposta fissa. In questo modo il reddito assoggettato a cedolare secca è escluso dal resto del reddito percepito dal padrone di casa.

In particolare, al percepimento dei canoni, verrà applicata un’imposta pari al 21% sull’ammontare lordo del canone a pagamento dell’Irpef e delle addizionali.

Esiste anche, in alcuni casi, la possibilità di versare la minore somma del 15% di imposta nei comuni con carenze di disponibilità abitative (Bari, Bologna, Catania, Firenze, Genova, Milano, Napoli, Palermo, Roma, Torino e Venezia e Comuni confinanti con gli stessi nonché gli altri comuni capoluogo di provincia e nei comuni ad alta tensione abitativa individuati dal Comitato interministeriale per la programmazione economica).

Come optare per la cedolare secca?

Se il locatore intende esercitare l’opzione in sede di prima registrazione del contratto, deve compilare il modello RLI, in cui, oltre ai dati relativi al locatore, al conduttore e all’immobile, va barrata l’apposita casella “cedolare secca”. L’efficacia dell’opzione è subordinata alla preventiva comunicazione da parte del locatore al conduttore della scelta per il regime opzionale e conseguente rinuncia ad esercitare la facoltà di chiedere l’aggiornamento del canone a qualsiasi titolo per tutta la durata dell’opzione.

Oltre all’atto della registrazione, si può optare per la cedolare secca anche in un momento successivo ossia – come vedremo a breve – per le annualità successive alla prima o al momento della proroga del contratto.

Si può cambiare la tassazione dell’affitto successivamente?

Chi sceglie il regime di tassazione ordinaria, può sempre modificarlo successivamente e optare per la cedolare secca; tuttavia, in tal caso, le imposte di registro e di bollo già versate all’atto della registrazione non gli saranno rimborsate. In caso di proroga del contratto, è necessario confermare l’opzione della cedolare secca contestualmente alla comunicazione di proroga. La conferma dell’opzione deve essere effettuata entro 30 giorni dalla scadenza del contratto o di una precedente proroga.

La cedolare secca vincola il locatore all’applicazione del regime per l’intero periodo di durata del contratto, salvo revoca in ciascuna annualità successiva da effettuarsi, presentando il modello RLI, entro il termine previsto per il pagamento dell’imposta di registro relativa all’annualità di riferimento che comporta il versamento dell’imposta di registro dovuta. Resta salva la facoltà di esercitare di nuovo l’opzione per la cedolare nelle annualità successive.

Quali svantaggi comporta la cedolare secca?

Chi opta per la cedolare secca non può più chiedere, finché rimane in tale regime, l’aggiornamento del canone di affitto, anche se è previsto nel contratto, inclusa la variazione accertata dall’Istat dell’indice nazionale dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati dell’anno precedente.

Chi può scegliere la cedolare secca?

Non tutti i padroni di casa possono optare per la cedolare secca. Possono farlo solo le persone fisiche (non quindi le società) che hanno la proprietà o l’usufrutto dell’immobile ed a condizione la locazione non avvenga nell’esercizio di attività di impresa o di arti e professioni.

Per quali immobili vale la cedolare secca?

La cedolare secca può essere applicata solo nei seguenti casi:

  • contratti di locazione aventi ad oggetto immobili ad uso abitativo locati per finalità abitative e le relative pertinenze; in pratica, è applicabile con riferimento ai contratti di locazione aventi ad oggetto fabbricati censiti al catasto nella categoria A (da A/1 ad A/11 escluso A10) o per i quali è stata presentata domanda di accatastamento in detta tipologia abitativa. Si considerano pertinenze gli immobili censiti al catasto nelle categorie C/2, C/6, C/7 e cioè cantine, box e tettoie che possono essere locate congiuntamente all’immobile abitativo o con contratto separato e successivo, a condizione che il rapporto di locazione intercorra tra le medesime parti contrattuali, nel contratto di locazione della pertinenza si faccia riferimento al contratto di locazione dell’immobile abitativo e sia evidenziata la sussistenza del vincolo pertinenziale con l’unità abitativa già locata;
  • abitazioni locate nei confronti di cooperative edilizie per la locazione o associazioni e fondazioni senza scopo di lucro purché sublocate a studenti universitari e date a disposizione dei comuni.

Come detto la cedolare secca vale solo per locazioni ad uso abitativo e non commerciale. A fare fede, in detto caso, non è l’attività svolta dall’affittuario, ma il fine per il quale sottoscrive il contratto di locazione. Secondo un precedente della Commissione Tributaria Regionale di Milano [1], il soggetto locatore di beni immobili, persona fisica che non eserciti attività imprenditoriale, ha il diritto ad applicare sul contratto di locazione la cedolare secca per la tassazione del canone di locazione anche nel caso in cui il contratto abbia come parte locataria un soggetto imprenditore o lavoratore autonomo, purché si abbia ad oggetto beni immobili destinati ad uso abitativo.

Se la casa è cointestata a più persone che succede?

In caso di contitolarità dell’immobile l’opzione deve essere esercitata distintamente da ciascun locatore.

I locatori contitolari che non esercitano l’opzione sono tenuti al versamento dell’imposta di registro calcolata sulla parte del canone di locazione loro imputabile in base alle quote di possesso. Deve essere comunque versata l’imposta di bollo sul contratto di locazione.

L’imposta di registro deve essere versata per l’intero importo stabilito nei casi in cui la norma fissa l’ammontare minimo dell’imposta dovuta.

Chi non può optare per la cedolare secca?

Non può optare per la cedolare secca:

  • il locatore se è una società (di persone e di capitali), un ente commerciale o non commerciale, un imprenditore o lavoratore autonomo, anche se concede in locazione un immobile abitativo ai propri dipendenti, a nulla rilevando che l’immobile sia da questi utilizzato a scopo abitativo
  • il conduttore: se agisce nell’esercizio di attività di impresa o di lavoro autonomo, indipendentemente dal successivo utilizzo dell’immobile per finalità abitative di collaboratori e dipendenti;
  • immobile situato all’estero;
  • immobile concesso in sublocazione;
  • immobile che pur avendo i requisiti di fatto per essere destinato ad uso abitativo, è iscritto in una categoria catastale diversa (ad esempio fabbricato accatastato come ufficio o negozio)
  • immobile accatastato come abitativo, ma locato per uso ufficio o promiscuo.

La Legge per tutti|Redazione

domenica 18 marzo 2018

Bonus mobili, spese trasporto e montaggio rientrano nelle detrazioni?


Gtres 


Anche le spese di trasporto e montaggio dei beni acquistati con il bonus mobili rientrano nelle agevolazioni? A rispondere a questo quesito è l'Agenzia delle Entrate nella rivista telematica Fisco Oggi.

Secondo la circolare n 29/E del 18 settembre 2013, anche le spese di trasporto e di montaggio dei beni acquistati rientrano nelle agevolazioni del cosiddetto "bonus mobili". Per tale ragione anche i pagamenti di queste ultime devono essere effettuati con bonifico o carta di debito o credito. Non è consentito il pagamento tramite assegni bancari, contanti o altri mezzi di pagamento.

sabato 10 marzo 2018

Esenzione Imu terreni agricoli 2018, novità dal Mef



Con la risoluzione n.17DF del 28 febbario 2018, il Dipartimento delle Finanze del Mef ha fornito chiarimenti inerenti l'esenzione Imu per i terreni agricoli.

La risoluzione riguarda la corretta applicazione della normativa afferente la disciplina agevolativa relativa all'imposta municipale propria nei confronti di coltivatori diretti (CD) e di imprenditori agricoli professionisti (IAP) iscritti nella previdenza agericola e titolari di trattamento pensionistico agricolo.

Secondo quanto chiarito dal Mef, c'è compatibilità tra lo status di pensionato con la qualifica di CD e di IAP e con la possibilità per gli stessi di continuare ad essere iscritti nella previdenza agricola. E' però verificare la sussistenza di tutti i requisiti di natura sia oggettiva che soggettiva, vale a dire:

  • Il possesso del fondo
  • La persistenza dell'utilizzazione agro-silvio-pastorale, mediante l'esercizio di attività dirette alla coltivazione del fondo stesso
  • la qualità soggettiva di coltivatore diretto (CD) o di imprenditore agricolo professionale (IAP) di cui all'art 1 del D.lgn ne 99 del 2004
  • l'iscrizione nella previdenza agricola.

Risoluzione 1/DF

PDF icon risoluzione-n.-1-del-2018.-cd-e-iap-agevolazioni-pensionati.pdf

fonte idealista

sabato 3 marzo 2018

Permesso di costruire con silenzio assenso


Permesso di costruire con silenzio assenso


Edilizia: che succede se il Comune non invia la risposta a chi ha presentato la domanda per l’autorizzazione a costruire un’opera dentro o fuori casa.

Uno dei principali nemici degli italiani è la burocrazia: non solo per le regole contorte, difficili da interpretare e sempre bisognose di circolari per essere applicate, ma anche per la lentezza e l’inefficienza (se non del tutto l’indifferenza) degli uffici nel recepire le richieste del cittadino. Non capita così raramente, a fronte di un’istanza presentata allo sportello, di non ricevere alcuna risposta. Quando la legge fissa dei termini precisi entro cui l’ufficio deve fornire un riscontro, l’eventuale silenzio va considerato come rigetto, ossia come un «no». Solo laddove esplicitato dalla normativa, il silenzio può essere considerato assenso, ossia come un «si». È quello che capita in edilizia, un settore molto delicato per via delle ripercussioni penali in capo a chi costruisce anche un semplice soppalco, una tettoia, un gazebo o una veranda senza aver ottenuto la licenza del Comune. In questi casi, dice una legge del 2001 [1], se l’ufficio tecnico non fornisce una risposta nei termini alla richiesta di permesso di costruire vale il silenzio assenso. E a ricordare questa importante regola è una recente sentenza del Tar di Catanzaro [2]. Ma procediamo con ordine e vediamo come ottenere il permesso di costruire e cosa succede se il Comune non riscontra l’istanza presentata dal cittadino.

Indice

Dove si presenta la richiesta di permesso di costruire?

Tutte le volte in cui non si rientra nei casi di edilizia libera, ossia quella non sottoposta ad alcun vincolo o autorizzazione (elenco peraltro di recente aggiornato: leggi Lavori in casa senza bisogno di permesso di costruire), l’interessato deve presentare domanda per il rilascio del permesso di costruire allo sportello unico per l’edilizia del Comune. Lo sportello unico per l’edilizia costituisce l’unico punto di accesso per il privato interessato in relazione a tutte le vicende amministrative riguardanti il titolo abilitativo e l’intervento edilizio oggetto dello stesso, che fornisce una risposta tempestiva in luogo di tutte le pubbliche amministrazioni, comunque coinvolte.

La domanda di permesso di costruire deve essere corredata da un’attestazione concernente il titolo di legittimazione, dagli elaborati progettuali richiesti e dagli eventuali ulteriori documenti previsti dalla legge. La domanda è accompagnata da una dichiarazione del progettista abilitato che asseveri la conformità del progetto agli strumenti urbanistici approvati ed adottati, ai regolamenti edilizi vigenti, e alle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell’attività edilizia e, in particolare, alle norme antisismiche, di sicurezza, antincendio, igienico-sanitarie alle norme relative all’efficienza energetica [1]. La dichiarazione asseverante del progettista abilitato sostituisce la precedente autocertificazione circa la conformità del progetto alle norme igienico-sanitarie (sempre che non si debba procedere, come peraltro già previsto nella formulazione previgente del dettato, a valutazioni tecnico-discrezionali).

Permesso di costruire: entro quanto tempo deve essere dato?

La legge sul procedimento amministrativo stabilisce [3] che, salvo non vi siano norme speciali che dispongono diversamente, la pubblica amministrazione deve rispondere alle istanze del cittadino entro 30 giorni. Per ottenere il permesso di costruire sono richiesti invece 90 giorni per i Comuni sotto i 100mila abitanti e 180 per quelli più grandi. Entro 30 giorni l’ufficio può richiedere integrazioni documentali (in tal caso il termine viene sospeso).

Non oltre la scadenza del suddetto termine, l’ufficio tecnico deve dire al cittadino se la sua istanza per il rilascio del permesso di costruire si considera accolta o rigettata.

Permesso di costruire: vale il silenzio assenso?

Se entro 90 o 180 giorni dal deposito del permesso di costruire, l’ufficio tecnico del Comune non dà risposta, vale la regola del silenzio assenso: in altre parole il silenzio ha valore di provvedimento di accoglimento, senza bisogno di ulteriori istanze o diffide. Si tratta quindi di una modalità semplificata di conseguimento dell’autorizzazione alla realizzazione della costruzione che può quindi essere avviata immediatamente.

Perché si formi legittimamente il silenzio assenso è però necessario che la richiesta di permesso di costruire sia completa in ogni suo elemento (compresi gli allegati) e sia stato pagato il contributo per l’edificazione richiesto dal Comune.

Il contrasto del progetto con le prescrizioni che non costituiscono presupposti essenziali dell’edificazione, invece, non impedisce la formazione del silenzio-assenso e l’amministrazione non può formulare un diniego tardivo.

Il silenzio-assenso scatta dopo 90 giorni (100 in caso di applicazione di preavviso di diniego) se il Comune è sotto i 100mila abitanti.

Sopra questa soglia i termini sono raddoppiati: 180 giorni (o 190 in caso di applicazione di preavviso di diniego).

Fatti salvi gli adempimenti in capo alle amministrazioni statali eventualmente coinvolte in relazione ad atti di assenso, comunque denominati, sono espressamente salvaguardate le norme regionali di ulteriore semplificazione e di riduzione dei termini procedimentali.

Una volta maturato il silenzio assenso, l’amministrazione non può più impedire l’attività edilizia: qualora emergano circostanze non valutate, il Comune dovrà prima procedere all’annullamento del provvedimento formatosi in modo silenzioso. Ad esempio, se il vicino protesta con il Comune con validi argomenti, il Comune stesso può agire in autotutela, se sussistono motivi di interesse generale [4]. In particolare, secondo la legge [5], entro un termine ragionevole (comunque non superiore a 18 mesi), il permesso di costruire illegittimo può essere annullato se sussistono le ragioni di interesse pubblico, comparando gli interessi dei destinatari e dei controinteressati. Solo se il permesso di costruire è stato ottenuto sulla base di false rappresentazioni di fatti o di dichiarazioni non vere, il termine per annullare il permesso di costruire si prolunga oltre i 18 mesi.

Quando non vale il permesso assenso

Il silenzio-assenso non si forma [6]:

  • nei casi in cui la legge qualifichi il silenzio dell’Amministrazione come rigetto dell’istanza ovverosia quando la legge attribuisca al silenzio il significato del provvedimento negativo (in ciò il silenzio-rigetto si differenzia dal silenzio-rifiuto, il quale ultimo non possiede nessun significato ma costituisce una situazione di semplice inadempimento dell’Amministrazione);
  • quando l’istanza coinvolga il patrimonio culturale e paesaggistico, l’ambiente, la difesa nazionale, la pubblica sicurezza e l’immigrazione, la salute e la pubblica incolumità;
  • quando la normativa comunitaria imponga l’adozione di un provvedimento espresso (la normativa comunitaria che non necessiti di mediazioni prevale infatti su quella nazionale);
  • con riferimento agli atti e procedimenti individuati con uno o più decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri (da adottare su proposta del Ministro per la funzione pubblica, di concerto con i Ministri competenti).

Sospensione del termine per il rilascio del permesso di costruire

I termini per la formazione del silenzio-assenso sono sospesi:

  • quando sia necessario acquisire valutazioni tecniche di organi o enti appositi prescritte dalla legge o da regolamenti;
  • per non più di una volta, quando sia necessario reperire informazioni o documenti non in possesso dell’ente procedente né acquisibili autonomamente presso altre pubbliche Amministrazioni. Per sapere se si è formato il silenzio-assenso sull’istanza, il tempo trascorso prima dell’evento che ha comportato la sospensione deve essere assommato con quello successivo.

Come dimostrare il silenzio assenso?

L’avvenuta formazione del silenzio-assenso può essere dimostrata dall’interessato mediante dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà (da rendersi, al pari delle altre dichiarazioni sostitutive). La dichiarazione sostitutiva, seppure resa in buona fede, può rivelarsi non veritiera e comportare così responsabilità anche penali in capo al privato, oltre alla perdita dei benefici ottenuti.

I rischi del permesso assenso

Se è vero che la regola del permesso assenso è una semplificazione a favore sia dell’amministrazione (che pertanto non è tenuta a rilasciare un documento per dare parere positivo) che del cittadino che così non deve impugnare il comportamento inerte del Comune, è anche vero che essa può presentare delle insidie proprio per via dell’assenza di un documento scritto di autorizzazione.

Innanzitutto non è del tutto chiaro quando la operatività del silenzio assenso sia esclusa (l’ambiente, la difesa nazionale, la pubblica sicurezza, la salute e la pubblica incolumità, così come anche il patrimonio paesaggistico e culturale, costituiscono materie “trasversali” che si intersecano con una quantità indefinita di attività). Inoltre, le cause di sospensione e di interruzione dei termini rendono molto difficile l’accertamento dell’avvenuta maturazione del silenzio-assenso da parte dell’interessato (il quale potrebbe, per esempio, trovarsi in serie difficoltà nel quantificare il periodo di sospensione massima consentita nel caso dell’acquisizione delle valutazioni tecniche). Le Pubbliche amministrazioni e i privati hanno scarsi motivi per ritenere affidabile la dichiarazione sostitutiva del privato che attesta l’avvenuta formazione del silenzio-assenso né possiedono adeguati strumenti per verificarne l’effettiva maturazione.

note

[1] Art. 20, Dpr n. 380/2001.

[2] Tar Catanzaro  sent. n. 491/2018.

[3] L. n. 241/1990.

[4] Tar Napoli sent. n. 2972/2014; Tar Catania sent. n. 572/2005.

[5] Art. 21 nonies L. n. 241/1990.

[6] Art. 20 della legge 241/1990, quale risultante dalle modifiche apportate dalla legge 80/2005 in sede di conversione del D.L. 35/2005.

Dopo quanti anni un terreno diventa mio


Dopo quanti anni un terreno diventa mio


Come funziona l’usucapione e come si dimostra: i tempi necessari per trasferire la proprietà di un immobile in capo al possessore.

Per anni hai utilizzato un terreno come se fosse il tuo, lo hai delimitato con delle recinzioni, lo hai coltivato, vi hai fatto dei lavori senza che nessuno venisse mai a contestarti nulla. Lo stesso proprietario non si è mai interessato di reclamare la titolarità dell’immobile cosicché hai potuto agire indisturbato alla luce del sole. Ora però vorresti che questa situazione, venutasi a creare di fatto, fosse “ufficializzata” anche sulle carte e nei pubblici registri. Così ti chiedi «dopo quanti anni un terreno diventa mio?». La risposta è piuttosto semplice, ma vanno forniti alcuni chiarimenti per non cadere in ricorrenti equivoci. In questo articolo parleremo proprio di come diventare proprietari di un terreno altrui con il semplice passare del tempo e l’utilizzo pacifico. È ciò che la legge chiama usucapione e che può costituire uno dei motivi per diventare intestatari di un bene senza bisogno di contratti, donazioni o successioni ereditarie (anche per questo è detto «acquisto a titolo originario», per distinguerlo dalla cessione che, invece, è un «acquisto a titolo derivativo»).

Indice

Come funziona l’usucapione?

Per spiegarti come funziona l’usucapione partiamo da un esempio. Immaginiamo che il proprietario di un terreno emigri in Canada e lì rimanga per molti anni. Prima di partire, lascia il proprio fondo in gestione a un contadino che abita lì vicino, con l’incarico di ararlo e di raccoglierne i frutti. In questo modo, il campo non andrà in rovina e il vicino potrà ottenere una remunerazione per il suo lavoro tenendo per sé tutto il raccolto. Passano 30 anni e il proprietario torna per reclamare il proprio terreno. Il contadino gli fa però notare che sono ormai passati i 20 anni dell’usucapione e che quindi ora il bene è suo. Chi dei due la spunta? In questo caso, chi si è limitato a coltivare il terreno, attenendosi alle istruzioni ricevute, non può rivendicare l’usucapione in quanto ha mantenuto un comportamento rispettoso dell’altrui proprietà fino alla fine. Quindi, il contadino dovrà restituire il fondo al legittimo titolare.

In pratica, affinché scatti l’usucapione è necessario non solo possedere il bene altrui in modo manifesto (cioè non clandestinamente e non con violenza) per 20 anni, ma compiere anche atti tipici che solo il proprietario (e non il semplice possessore) potrebbe fare. Insomma bisogna agire come se il bene fosse proprio, disconoscendo pubblicamente l’altrui diritto. Come? Lo vedremo a breve.

Per tornare all’esempio di poc’anzi, Immaginiamo che, dopo 10 anni dalla partenza in Canada, il contadino inizi a fare dei lavori sul terreno, a modificarne in parte la destinazione d’uso, ad esempio costruendovi una cascina e a recintare l’immobile con un cancello di cui solo lui ha le chiavi. Dopo 20 anni dal giorno che aveva lasciato l’Italia, torna il proprietario per riavere l’immobile ma il contadino rivendica l’usucapione: può farlo? Neanche qui si è trasferita la proprietà. Infatti, sebbene il possessore si sia comportato come solo il proprietario poteva fare (trasformando e delimitando il terreno), è da questo momento che devono decorre i 20 anni (nel caso di specie ne sono decorsi solo 10, per un totale di 20 dalla partenza.

L’ultimo esempio vede invece il proprietario tornare dopo 40 anni in Italia. In tale caso sono trascorsi i 20 anni dal giorno in cui il contadino ha iniziato a trattare come proprio il terreno. Pertanto qui si è formata l’usucapione.

Dopo quanti anni un terreno diventa mio?

A questo punto vediamo dopo quanti anni un terreno diventa di un’altra persona, ossia del possessore che intende usucapirlo. I termini sono diversi a seconda del tipo di bene. Eccoli qui di seguito riportati:

  • 20 anni per gli immobili il cui possesso sia stato acquistato ben sapendo che si tratta di una proprietà altrui sia pur nella consapevolezza del legittimo proprietario (è l’esempio che abbiamo fatto poc’anzi). Il termine non comincia a decorrere da quando si è acquistato il possesso del bene ma da quando si è posto il primo atto che manifesta l’intenzione di atteggiarsi a proprietario esclusivo del bene;
  • 20 anni per gli altri diritti di godimento sopra un immobile altrui (usufrutto, uso, abitazione, servitù, ecc.);
  • 20 anni per i beni mobili;
  • 10 anni se si è acquistato il possesso in buona fede cioè credendo di avere tra le mani un atto di acquisto valido che invece si è rivelato nullo (è il caso di chi compra da colui che non è il proprietario o senza il consenso del comproprietario);
  • 10 anni per i beni mobili, relativamente alla proprietà o altri diritti reali acquisiti in buona fede da chi non ne è il proprietario, in presenza o meno di un atto di proprietà.
  • 10 anni per i beni mobili iscritti nei pubblici registri (v. automobili, imbarcazioni, ecc.);
  • 3 anni dalla trascrizione per i beni mobili iscritti nei pubblici registri acquistati in buona fede da chi non ne è proprietario ossia con un atto nullo.

Per l’acquisto della proprietà rurale nei comuni montani l’usucapione ordinaria è dirotta a 15 anni e quella abbreviata a 5. Ciò perché, secondo la legge, nelle zone disagiate è maggiormente da preferire chi lavora la terra ricavandone un reddito rispetto a chi la lascia inoperosa.

Non è sufficiente coltivare un terreno

Da quanto abbiamo appena detto, coltivare un terreno non è un comportamento sufficiente perché scatti l’usucapione se il possessore era stato a ciò autorizzato dal proprietario. Se invece lo ha fatto di propria spontanea iniziativa, invadendo l’altrui fondo si può allora parlare di usucapione. Questo è il pensiero della giurisprudenza maggioritaria tra cui la Cassazione [1].

Abbiamo infatti detto che per reclamare la proprietà di un terreno altrui è necessario l’esercizio di poteri tipici del proprietario del bene. Non basta quindi compiere quegli stessi atti che il titolare del bene aveva autorizzato. Ad esempio l’inquilino di un appartamento non potrebbe mai usucapirlo anche se smette di pagare il canone di locazione; l’affittuario di un fondo rustico non potrebbe rivendicare l’usucapione solo per aver arato il terreno se questi erano gli accordi con il proprietario. In tutti i casi è necessario che il possessore del bene compia degli atti che solo il proprietario potrebbe porre in essere come, ad esempio, il mutamento di destinazione, la costruzione o la rimozione di elementi strutturali, il cambio di chiavi dal cancello, ecc. Insomma, bisogna dimostrare di avere l’intenzione di comportarsi come l’unico ed esclusivo proprietario dell’immobile, escludendo qualsiasi altro soggetto.

Coltivare piante, alberi e altri vegetali o piantarli del tutto può costituire esercizio del diritto di proprietà solo se il titolare del bene non aveva mai autorizzato il possessore a fare ciò. Viceversa, se la coltivazione era stata in precedenza autorizzata allora non si può più parlare di usucapione.

Come si interrome l’usucapione?

L’usucapione si interrompe notificando al possessore un atto di citazione in giudizio volto a ottenere la restituzione del bene.

Non sono sufficienti semplici lettere di diffida, sollecitazioni, telefonate o turbative di fatto. La costituzione in casa non serve né è necessario iscrivere a ruolo il processo; basta il semplice atto intellettivo.

note

[1] Cass. sent. n. 9325/2011: «La circostanza di aver coltivato un terreno e di aver eseguito dei lavori sullo stesso non dimostra con certezza l’”animus possidenti” ai fini dell’usucapione, non comportando di per sé una situazione oggettivamente incompatibile con la proprietà altrui». Trib. Ascoli Piceno, sent. n. 782/2017.

Il regolamento di condominio prevale sulla legge?


Il regolamento di condominio prevale sulla legge?


Quando il regolamento può derogare alle norme di legge e del codice civile: la differenza tra regolamento contrattuale e assembleare.

Ci sono regolamenti di condominio che vietano ai condomini di dare in affitto la casa a studenti universitari, extracomunitari, clandestini irregolari, esercizi commerciali che svolgono attività rumorose. Ce ne sono altri che vietano di possedere animali o di farli transitare in ascensore. Altri impediscono ai condomini di esporre vasi da fiori sul terrazzo, caldaie, condizionatori o tende non in tinta con i colori prescelti dal costruttore. Ed ancora ci sono regolamenti che vietano di fare rumore in determinati orari del giorno, di non suonare strumenti musicali, di non costruire verande sul balcone e di non utilizzare le aiuole per i propri scopi. Tutti questi limiti vanno a comprimere i diritti che la legge riconosce al proprietario di un immobile, sia esso esclusivo come l’appartamento, sia esso di spettanza solo per una quota come le parti comuni dell’edificio. Così è lecito chiedersi se, in ipotesi del genere, il regolamento di condominio prevale sulla legge. È quanto chiariremo in questo articolo in cui approfondiremo fino a dove può spingersi il regolamento nell’impedire determinati usi della proprietà privata che, per Costituzione, è intangibile.

Indice

Regolamento di condominio: quale maggioranza?

Innanzitutto dobbiamo chiarire che c’è regolamento e regolamento. Soltanto quello approvato all’unanimità può imporre dei confini all’esercizio del diritto di proprietà e all’utilizzo dell’appartamento. Il paletto diventa infatti una sorta di “autolimitazione”: solo il consenso dell’interessato può creare un vincolo valido per questi così come per i successivi acquirenti dell’immobile.

Il regolamento può essere approvato all’unanimità in due modi diversi: o con votazione in assemblea (viene così chiamato «regolamento assembleare») oppure con approvazione differita, da parte dei singoli acquirenti degli immobili, davanti al notaio nel momento in cui acquistano l’appartamento dall’originario costruttore (cosiddetto «regolamento contrattuale», proprio perché allegato o richiamato al contratto).

Al contrario, il regolamento approvato con la semplice maggioranza può regolare solo l’utilizzo delle parti comuni dell’edificio, senza andare a derogare le norme imperative del codice civile. Non potrebbe, ad esempio, violare la regola della ripartizione delle spese secondo millesimi o vietare l’utilizzo di inferriate o doppi infissi; non potrebbe porre condizioni all’affitto o stabilire in che modo i condomini devono utilizzare il cortile o il lastrico solare.

I divieti del regolamento valgono per i successivi acquirenti?

Se è vero che chi approva un regolamento contrattuale lo fa con coscienza, autorizzando la limitazione al proprio diritto di proprietà, non è detto che la medesima consapevolezza sia anche in capo a un successivo acquirente, il quale ad esempio potrebbe essere portato a comprare una casa ad uso investimento, per poi trovarsi con il divieto di locare a studenti.

Proprio per tutelare gli acquirenti, la giurisprudenza ritiene che il regolamento condominiale diventa valido e opponibile a questi ultimi solo se trascritto nei pubblici registri immobiliari; in questo modo ogni interessato all’acquisto, prima della firma dell’atto di vendita, può prenderne visione. In alternativa, secondo alcune pronunce, è ugualmente valido nei confronti dell’acquirente il regolamento allegato al rogito notarile con cui è stato comprato l’appartamento; anche questo sistema, infatti, garantirebbe la preventiva conoscenza di limiti e divieto all’uso dell’immobile.

Il regolamento di condominio è obbligatorio anche per l’affittuario ossia l’inquilino in locazione ad uso abitativo. Il conduttore deve rispettare le norme contenute nel regolamento condominiale. Se non lo fa, è inadempiente non essendosi servito della cosa locata per l’uso determinato nel contratto o per l’uso che può altrimenti desumersi dalle circostanze; pertanto può essere sfrattato per «grave inadempimento».

Un regolamento di condominio può limitare l’uso dell’appartamento?

Come si è detto, solo il regolamento approvato all’unanimità può limitare l’uso dell’appartamento. I limiti che il regolamento di condominio può porre incidono, di solito, sulle nuove forme di locazione: oltre al bed & breakfast e all’affittacamere, ci sono le locazioni brevi, attività tutte svolte anche da privati che in tal modo offrono in godimento a terzi il proprio immobile per una durata limitata (anche pochi giorni). Si tratta di un’attività che può creare pregiudizio agli altri abitanti del condominio in tema di sicurezza, di tranquillità e di immissioni di rumore, per la continua alternanza delle persone nell’uso del bene locato, non sempre rispettose delle regole del buon vivere civile e di vicinato. Simili limitazioni e divieti possono essere previsti nei soli regolamenti contrattuali. Possono risultare anche da una delibera assembleare, purché assunta con il consenso unanime di tutti i condomini e poi trascritta nei registri immobiliari. L’importante è che queste clausole, in quanto destinate a imporre delle limitazioni ai poteri e alle facoltà spettanti ai condomini sui beni di loro esclusiva proprietà o a disciplinarne l’uso, siano scritte in modo chiaro ed esplicito e facciano uso di espressioni che non diano luogo a possibili incertezze.

Il regolamento di condomino prevale sulla legge?

Il regolamento di condominio può derogare alle norme di legge solo se approvato all’unanimità e a condizione che non si tratti di norme inderogabili e imperative, molte delle quali sono contenute nel codice civile.

Il regolamento non può, ad esempio, vietare ai condomini di possedere animali in casa, ma – secondo la giurisprudenza – se approvata all’unanimità, l’eventuale clausola è legittima.

Il regolamento di condominio non può derogare alle norme che prevedono i diritti inviolabili dei condomini. In particolare, il regolamento:

  • non può imporre ai proprietari di rinunciare ai propri diritti sulle parti comuni dell’edificio, ad esempio costringendo il condomino del piano terra, che magari ha un negozio, a non accedere all’interno dell’edificio o a non utilizzare il parcheggio comune;
  • non può escludere che uno o più condomini non partecipino alle spese comuni secondo i rispettivi millesimi. Così, ad esempio, è nulla la clausola – imposta dal costruttore – con cui questi si esonera dal pagamento delle spese condominiali gravanti sugli appartamenti rimasti invenduti;
  • deve rispettare le norme inderogabili come quelle che vietano di eseguire opere che rechino danno alle parti comuni o quelle che vietano di sopraelevare se le condizioni statiche dell’edificio non lo consentono;
  • deve rispettare i diritti di ciascun condomino per come risultanti dall’atto di acquisto, non potendoli né diminuire né escludere in modo eccessivo (potrebbe però impedire, se approvato all’unanimità, determinate condotte che possono violare il decoro architettonico come le tende di un particolare colore o la realizzazione di una veranda sul balcone);
  • non può derogare alle norme del codice civile che regolano la nomina e la revoca dell’amministratore di condominio e i relativi compiti e poteri;
  • non può vietare o limitare il diritto dei condomini di contestare, dissentire o impugnare le delibere dell’assemblea;
  • non può derogare alle norme del codice che regolano le modalità con cui possono essere apportate innovazioni all’edificio condominiale;
  • non può prevedere eccezioni al principio di indivisibilità delle parti comuni dell’edificio; pertanto il condomino non può rinunziare al suo diritto sulle parti comuni;
  • non può modificare le regole sulla rappresentanza e voto in assemblea;
  • non può cambiare le norme sulla validità delle delibere del condominio;

Nel caso in cui il regolamento di condominio contenga norme incompatibili con tali disposizioni di legge, prevale automaticamente la legge e il regolamento può essere disapplicato o impugnato davanti al giudice.

Quando il regolamento può derogare la legge?

È stato ritenuto valido il divieto di apposizione di insegne, targhe e simili sui muri dell’edificio o subordinato al consenso dell’amministrazione, così come il divieto del proprietario dell’ultimo piano di costruire sopra lo stesso (diritto di soprelevazione); si possono vietare gli interventi che pregiudicano il decoro così come le attività rumorose. È stata invece ritenuta nulla la clausola del regolamento che prevede l’attribuzione della carica di amministratore ad un determinato soggetto (ad esempio il costruttore,  senza possibilità di nomina assembleare), per un tempo indeterminato.

Il regolamento può di certo stabilire un criterio particolare di ripartizione delle spese, sia in generale, sia per alcuni servizi e manutenzioni, vincolante per tutti i partecipanti al condominio. Perché ciò avvenga, però, la clausola o l’intero regolamento deve essere stato approvato all’unanimità.

Inoltre il regolamento può prevedere che alla manutenzione del lastrico solare provvedano tutti i condomini secondo millesimi, a prescindere che siano o meno coperti dalla porzione di lastrico oggetto di lavori.

Il regolamento condominiale deve essere trascritto?


Il regolamento condominiale deve essere trascritto?

L’AUTORE: Redazione


La trascrizione nei pubblici registri immobiliari del regolamento condominiale serve a rendere opponibili ai futuri acquisti i limiti all’utilizzo degli appartamenti.

Avrai sicuramente sentito dire che alcuni regolamenti di condominio vengono trascritti nei pubblici registri, o meglio annotati insieme alle singole unità immobiliari, di modo che chiunque ne possa prendere preventiva visione nel momento in cui dovesse decidere di acquistare un appartamento all’interno dello stabile. La funzione dei Registri Immobiliari, tenuti dall’Ufficio del territorio presso l’Agenzia delle Entrate, è proprio quella di pubblicizzare tutte le vicende e i vincoli degli immobili: dai passaggi di proprietà ai pignoramenti, dalle cause in corso alle ipoteche, dai sequestri agli eventuali limiti di utilizzo imposti dal regolamento condominiale. Ma quando il regolamento condominiale deve essere trascritto? Si tratta di una formalità necessaria e obbligatoria oppure se ne può fare a meno? In questo articolo cercheremo di spiegare la funzione della trascrizione del regolamento di condominio nei pubblici registri immobiliari: a che serve, quando serve e come si deve eseguire.

Indice

A che serve la trascrizione del regolamento di condominio?

Di norma il regolamento di condominio regola la vita condominiale e, in particolare, l’utilizzo delle parti comuni dell’edificio (le scale, l’androne, i posti auto, il cortile, ecc.). Solo raramente il regolamento entra nelle case dei condomini imponendo loro dei vincoli di utilizzo, ad esempio vietando di installare tende di un determinato colore, di esporre dalla finestra vasi da fiore, di fare rumore ad orari prestabiliti, di dare in affitto a particolari categorie di soggetti, di svolgere attività commerciali rumorose, ecc. Tutte le volte in cui il regolamento di condominio pone dei limiti all’uso della proprietà individuale deve essere approvato all’unanimità [1]: solo il consenso di tutti i proprietari può infatti determinare una autolimitazione nell’impiego del proprio bene.

Fin quando, però, i proprietari sono coloro che hanno votato il regolamento o che lo hanno accettato all’atto dell’acquistato della casa dal costruttore, non ci sono difficoltà in ordine alla loro consapevolezza sui predetti vincoli. I problemi sorgono però quando subentri un successivo acquirente il quale potrebbe non essere a conoscenza del limite contenuto nel regolamento. Si pensi a una persona che compri una casa a uso investimento per fittarla a studenti universitari perché vicina a un ateneo e solo dopo l’acquisto scopra che è vietato dal regolamento. Come si può tutelare tali persone? La soluzione è proprio con la trascrizione del regolamento di condominio: difatti, in questo modo, l’interessato all’acquisto è messo nella condizione, prima di firmare l’atto di vendita, di conoscere eventuali paletti all’impiego della proprietà.

Come ha chiarito la Cassazione [2], l’omessa trascrizione non ha alcuna influenza sul regolamento che resta valido; l’unica conseguenza che ne scaturisce è la impossibilità di opporre ai successivi acquirenti delle singole unità immobiliari comprese nell’edificio le eventuali clausole limitative contenute nel regolamento dei diritti esclusivi. Quindi questo non vuol dire che tutto il regolamento è inopponibile ai “successivi” condomini, ma solo quelle parti che pongono dei divieti all’uso dell’appartamento privato.

Qualche giudice ha però ritenuto, come valida alternativa alla trascrizione del regolamento, la sua allegazione all’atto di vendita. Così il nuovo acquirente non potrà dire di non essere stato al corrente di eventuali limiti all’uso dell’immobile.

Come si trascrive il regolamento di condominio?

In ogni caso, se si procede alla trascrizione del regolamento di condominio, non basta indicare genericamente, nella nota, il regolamento contenente le limitazioni, ma bisogna indicare le specifiche clausole che limitano i diritti dei condomini, indicando il loro contenuto essenziale. La nota di trascrizione deve cioè consentire di accertare con sicurezza a favore e a carico di chi la trascrizione debba conseguire i suoi effetti, e quale sia il mutamento giuridico che l’atto trascritto produce in relazione ai beni ai quali si riferisce.

Cos’è e come funziona il regolamento di condominio?

Il regolamento è la principale fonte del diritto condominiale: una sorta di statuto convenzionale che disciplina la vita e l’attività del condominio.

La giurisprudenza di legittimità definisce il regolamento condominiale come atto volto ad incidere su di un rapporto plurisoggettivo concettualmente unico articolato in un complesso di regole giuridicamente vincolanti per i soggetti che ne sono destinatari [3].

Il regolamento diventa obbligatorio quando i condomini sono almeno 11. Fino a dieci proprietari quindi il palazzo può restare senza regolamento condominiale.

note

[1] Cass. S.U. n. 943/1999.

[2] Cass. sent. n. 714/1998.

[3] Cass. sent. n. 2590/1990.

Meglio comprare una casa nuova o da ristrutturare?


houzz 

Autore: houzz


Se siete alla ricerca della casa dei vostri sogni sappiate che comprare un'abitazione nuova o ristrutturare una casa vecchia non è solo una questione di budget. Sono da considerare, oltre ai costi, la qualità dell’abitare, le garanzie, l’estetica finale e l’attitudine personale. Ecco un breve vademecum con 3 motivi per comprare nuovo, 3 motivi per acquistare da ristrutturare e le garanzie previste dal Codice Civile per chi compra.

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1. Nuovo per minimizzare i tempi  Se per attitudine siete poco pazienti o andate in ansia di fronte alle incognite, comprare un’abitazione nuova direttamente dal costruttore è sicuramente la scelta più facile perché potrete visionare l’abitazione rendendovi conto della qualità dei materiali, dell’illuminazione degli ambienti, della grandezza dei vani e non avrete che da divertirvi a scegliere gli arredi.

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3. Nuovo per un’abitazione moderna ed efficiente  Le nuove abitazioni sono più efficienti energeticamente e già dal 2021 saranno nZEB (a consumo quasi zero), sono sempre più tecnologiche e caratterizzate da materiali innovativi. Le soluzioni architettoniche delle costruzioni più moderne si spingono poi verso forme e proporzioni in grado di coniugare bellezza estetica e tecnologie intelligenti.

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2. Ristrutturare per godere di volumi e spazi più ampi  Le abitazioni costruite sino agli anni’60 del secolo scorso sono caratterizzate, rispetto a quelle più recenti, da stanze e finestre più ampie, soffitti più alti e dotate di spazi aggiuntivi come ingressi ripostigli e studi mentre le nuove costruzioni sono solitamente calibrate dalle dimensioni minime di legge. Per chi sta riscoprendo il piacere di vivere la casa, i grandi spazi di un’abitazione vecchia da ristrutturare sono l’ideale.

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3. Ristrutturare per beneficiare delle agevolazioni fiscali  Le agevolazioni fiscali attive hanno lo scopo di invogliare le persone a recuperare l’esistente diminuendo il consumo di risorse non rinnovabili come il suolo, l’ambiente e l’energia. In quest’ottica il riuso e l’efficientamento delle vecchie abitazioni è la chiave della sostenibilità edilizia italiana per cui chi ristruttura nel 2017 può scegliere tra bonus ristrutturazioni al 50%, ecobonus al 65%, sismabonus dal 50% al 80%, I.V.A. agevolata, bonus arredi e conto termico 2.0.

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Ed infine… le garanzie del Codice Civile per chi compra (nuovo e da ristrutturare).
Sia che acquistiate nuovo dal costruttore che da ristrutturare tenente presente che il Codice Civile prevede delle garanzie specifiche a tutela della bontà della cosa compravenduta.  In particolare gli articoli 1667 e 1669 del Codice Civile tutelano per dieci anni chi acquista nuovo dal costruttore da vizi occulti, ossia gli danno la possibilità di richiedere alla ditta il pagamento dei danni causati da errori nella costruzione che non erano visibili al momento dell’acquisto.

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L’articolo 1490 del Codice Civile tutela invece chi compra per la durata di un anno (sia nuovo che da ristrutturare) da vizi che diminuiscano il valore della cosa ossia da condizioni non note all’acquirente al momento del rogito che incidono sulla qualità della casa a tal punto da diminuirne in maniera quantificabile il valore.  Attenzione: per non perdere le garanzie previste dal Codice Civile è necessario contestare il vizio tempestivamente dalla scoperta.